Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
PERCHE'?
E’ giusto che ll film di Bellocchio raccolga premi e osanna unanimi, qualche dissidente all’uscita dalla sala tenta timidamente una critica negativa subito zittito, la confezione è egregia e del resto quasi sessant’anni di mestiere e un talento innato non potevano ottenere altro sotto quel profilo.
Dunque un film che si aggiunge alla serie dei grandi film di un Maestro che iniziò ad essere tale in giovanissima età, 26 anni, con I pugni in tasca.
Quello che ora allo spettatore reduce dalla visione può interessare è la risposta, se mai una risposta può esserci, alla domanda: Perché?
Perché arrivare all’epilogo della propria vita, una vita di successo, in una famiglia importante, e parlare di un giovane fratello impiccatosi nel lontano 1968 due giorni dopo Natale?
Natale, si sa, fa salire le statistiche dei suicidi, la depressione tocca i picchi più alti quanto più le feste sono un inno alla famiglia e al “volemose bbene”, dunque la data era canonica.
Canonico anche l’anno, il magico ’68, l’anno del “tutto e subito”, “cambiare il mondo” e cazzate varie (che fossero cazzate lo dice lo stesso Marco e la geniale risposta di Camillo “Marx può aspettare” passò inosservata allora, dà il titolo al film oggi, potenza del tempo!).
Dunque perché? Non lo chiediamo a lui, l’artista risponde con la sua arte. Lo chiediamo al film cercando di esplorarne la genesi.
Camillo è il gemello numero due, nato tutto nero asfittico dopo intenso travaglio e dopo il primo velocemente sfornato, Marco.
Somigliano poco per essere gemelli, belli entrambi ma lui di più, qualcosa fra James Dean e Lou Castel, e della gemellanza di cui tanto si sa, del legame fortissimo, simbiotico, che dura tutta la vita, non si avverte traccia, almeno nel film.
Marco recupera foto e filmini, fa parlare tutti quelli che restano della grande famiglia della buona borghesia di Bobbio/Piacenza, sorelle e fratelli, la sorella della fidanzata di Camillo, lui stesso, tutti parlano, molto, e a voce alta, ben impostata, racconti dettagliati e ben strutturati, perfino la sorella sordomuta riesce a dirne tante (con sottotitoli).
Unici a dire pochissime parole Pier Giorgio ed Elena, i figli di Marco, di quest’ultima sono molto eloquenti gli sguardi, e si capisce perché.
Loro non c’entrano, questa saga famigliare l’hanno vissuta molto dall’esterno, di questo zio hanno immagini sfocate e forse di lui hanno sentito davvero parlare poco.
Ora vedono e ascoltano tutto in una volta sola e restano in silenzio, chissà cosa passa nelle loro teste?
Ma torniamo alla domanda iniziale: Perché? Perché parlare così, con testimoni dal vivo, sciorinando memorie intime, famigliari in pubblico, e dopo mezzo secolo dall’evento?
Questo fratello ha continuato evidentemente ad essere un fantasma rimosso a fatica, così poco influente da vivo e così presente da morto.
Perché è chiaro che la sua morte così traumatica ha segnato uno spartiacque, basta vedere i film del fratello, c’è lui, spesso.
Certo anche nell’immaginario degli altri ha continuato ad essere un punto oscuro, alimentando quei sensi di colpa che ci trasciniamo dietro alla morte dei nostri cari, anche quando la loro morte è stata normale, naturale.
Un suicidio inatteso è l’orrore che non passa, ed ecco il film.
Esorcizzare? Impossibile. Capire qualcosa di più di quell’oscuro fondo nero che si trova nei depositi più reconditi della psiche e all’improvviso arriva a galla, magari quando tutto sembra normale? Difficile.
Camillo aveva finalmente un lavoro, faceva l’insegnante di educazione fisica, aveva aperto una palestra. Aveva una fidanzatina, pressochè sconosciuta alla famiglia, ma l’aveva.
Camillo aveva finalmente finito di girovagare in cerca di un ruolo nella vita, lui sempre bocciato, lui un fallimento dietro l’altro, lui che aveva chiesto al fratello famoso se poteva trovargli qualcosa da fare nel cinema.
Il gemello bravo ora dice: “Ma cosa potevo fare, fargli fare l’attore?”. E perché no, si chiede lo spettatore onnisciente, al figlio Pier Giorgio cos’ha fatto fare?
Dunque cerchiamo di capire, non è morbosa curiosità la nostra, è il film che autorizza questo sforzo.
La voce fuori campo di Marco apre dicendo che il film è per il fratello, un “angelo “ , e di lui sembra che parlino tutti raccontando episodi vari da cui emerge un ritratto che vorrebbe essere oggettivo, autentico. In realtà ognuno parla di sè, e la cosa non stupisce. L’altro vive nella narrazione degli altri, chi sia in realtà sfugge ad ognuno, e finché tutto funziona nulla da dire, se finisce con un suicidio qualche domanda bisognerebbe farsela. Ma non post mortem, troppo facile e troppo assolutorio, il buon Camillo era preda di un male oscuro di cui bisognava captare i segnali, erano evidenti, ma spesso la famiglia è il covo di tutte le incomprensioni e di superficiale attenzione ai suoi problemi la famiglia Bellocchio ha dato gran prova.
Oggi interviene un’elaborazione del lutto affidata ad un canto corale in cui si rintracciano in filigrana giudizi riduttivi che allora Camillo percepiva, anche se ammantati da tanto affetto, certo, quello non manca mai, ma non basta e soprattutto non serve.
Ognuno ha mancato, la madre preoccupata delle fiamme dell’inferno fin dalla sua nascita, preda di una religiosità medievale che l’ha accecata, i fratelli occupati in carriere splendide mentre lui veniva relegato in una scuola tecnica con carriera da geometra o ragioniere.
Ma ognuno è responsabile di sè stesso, l’avevano già capito gli antichi, non c’era bisogno di scavare in un riconoscimento tardivo di mancanze, Camillo ha fatto una scelta, solo lui ne è responsabile e solo lui ne conosce i motivi profondi.
“Camillo perché l’hai fatto?” sussurra la fidanzatina tremante al funerale.
Forse leggere le sue ultime parole nel biglietto lasciato avrebbe aiutato a capire, ma quello scritto, racconta l’intellettuale fondatore dei Quaderni Piacentini, Piergiorgio, fu occultato. Erano tempi di esposizione pericolosa a sinistra, potevano esserci perquisizioni. Poi lo scritto sparì e nessuno ricorda cosa ci fosse scritto.
Povero Camillo, forse lo può consolare quello che disse Jaspers sul senso del tragico quando parlò dell “apparente assurdità della sventura”. Il male incombe anche sui giusti, a ciascuno il suo.
www.paoladigiuseppe.it
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