Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: IL COLIBRI’
Il colibrì che dà il titolo al film e soprattutto al romanzo di Sandro Veronesi vincitore del Premio Strega 2020 è Marco Carrera.
Chiamato così dal padre perché era molto piccolo rispetto ai ragazzini della sua età e soprattutto rispetto al fratello minore, e quindi sarà costretto a fare una cura ormonale a Milano.
L’unico gesto di autorità che il padre ha compiuto in tutta la vita di uomo, marito e genitore.
E viene chiamato così dall’unica donna che ha mai amato perché lui come un colibrì muove insistentemente le ali contro le avversità del destino per rimanere fermo in un posto.
E quel posto è la villa al mare sul Tirreno, la famosa casa al mare simbolo del ceto medio alto fiorentino tendenzialmente formato da Architetti, Ingegneri o Medici.
Tutti gli eventi che segneranno la vita e le scelte di Marco Carrera avverranno proprio in quel posto.
Dalla conoscenza del grande amore rappresentato dalla francese Luisa Lattes (nome molto D’Annunziano), il primo bacio, la consapevolezza della crisi di coppia dei genitori, il trauma familiare che lo segnerà per sempre, la lacerazione del rapporto conflittuale col fratello e soprattutto, la telefonata da quel numero sconosciuto che avrebbe ucciso un bisonte ma che essendo il protagonista un Colibrì rimarrà saldo e fermo a continuare la sua accettazione del dolore.
Purtroppo, come il Colibrì anche la regia di Francesca Archibugi, nonostante i continui salti temporali provocati dal battito d’ali, è molto statica.
Il Colibrì film è un continuo viaggio nel tempo segnato dalle canzoni dei Clash e di Patti Smith che ti sbatte dagli anni 70 fino ad atterrare in un ipotetico futuro (nel libro è il 2030) ma senza portarti da nessuna parte.
Nonostante il film parli di drammi che lacerano il nostro io, parli del tanto famoso concetto di “Resilienza”, il film non emoziona. Non riusciamo a essere empatici col conflitto emozionale di Marco Carrera. E questo dispiace moltissimo perché anche questa volta Pierfrancesco Favino è veramente molto bravo a giocare in sottrazione e quindi rappresentare un personaggio forte nonostante il suo voluto low profile.
Forse come spettatore non mi sono troppo identificato in una realtà molto radical chic tanto amata dalla regista nella sua filmografia (da vedere Il nome del Figlio o Gli Sdraiati per credere) e per lunghi tratti il film sembra un film di Gabriele Muccino ma senza quelle urla disperate che lo caratterizzano.
E alla fine. Il colibrì diventa una sorta di Too Much emotivo (nella storia abbiamo suicidi, chemioterapie di coppia, funerali teatrali, incidenti mortali, morti assistite, figli di colore, tradimenti e tanta castità) che però non viene supportato dall’intero cast a disposizione.
E così per la prima volta l’isteria (che sarebbe stata utile) di Laura Morante viene disinnescata, Berenice Bejo fa la star francese che rende internazionale il progetto, Massimo Ceccherini in versione Totò nella Livella ti disorienta, ma soprattutto è l’interpretazione ipercarica di Kasia Smutniak ti fa chiedere se sia un caso che tutte le volte ci sia una grande produzione Fandango la protagonista femminile sia la moglie di Domenico Procacci.
Quello che fa ben sperare sono comunque le interpretazioni di Fotinì Peluso e Benedetta Porcaroli (ormai volto simbolo dei film tratti dai Premi Strega come La Chiesa Cattolica), abbiamo un ricambio di attrici belle e talentuose.
Nota a parte per Nanni Moretti, pare che per lui il tempo si sia fermato e non invecchia mai.
E quando dico non invecchia mai vi consiglio di non abbandonare la sala prima della fine.
Cosa dire, anche a me come a Marco Carrera appena il film è finito è partito un fischio.
Voto 4
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