Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film
"…e, ma io ho letto il libro ed è un'altra cosa…". Quante volte lo abbiamo sentito dire? Eppure, mai come in questa circostanza l'adattamento di un romanzo a un film vale quell'affermazione. Il colibrì, che ha fruttato a Sandro Veronesi il premio Strega, è un libro di 368 pagine al centro del quale si trova Marco Carrera (Favino), toscano di buona famiglia, chiamato col nome del volatile dapprima per via della sua statura lillipuziana poi, a seguito di alcune cure ormonali, perché - da adulto - impiegava una quantità enorme di energia per stare sostanzialmente sempre nello stesso punto. Ma quello che nel romanzo è un personaggio assai complesso e con una dimensione dionisiaca piuttosto oscura ma rilevante, qui viene ridotto a soggetto monodimensionale, sul quale la vita si accanisce portandogli una serie di sciagure: il suicidio della sorella maggiore, l'allontanamento - per decenni - dal fratello, la moglie pazza (Smutniak), la figlia (Porcaroli) che muore durante un'arrampicata, un amore lungo una vita, ma mai concretizzato, la malattia. Compresso nelle due ore di film, Il colibrì diventa l'inventario di un uomo costretto a sopportare ogni disgrazia possibile, facendo sembrare il film uno di quei melodrammoni à la Matarazzo, nel quale i personaggi minori - rispetto al protagonista - sono tutti altrettanto piatti. Come già ne la riduzione de Il nome del figlio (da un blockbuster francese) o ne Gli sdraiati, Francesca Archibugi sembra avere completamente smarrito la bussola del racconto, mettendo in scena soltanto case ultraborghesi e lasciando recitare gli attori senza alcuna capacità di direzione (mai si era visto un Favino così sott tono). Segnalazione a parte per l'andirivieni temporale, che, pur seguendo lo stile del libro, diventa un impegno acrobatico per lo spettatore, e per il trucco: davvero difficile vedere qualcosa di peggio.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta