Regia di Laura Wandel vedi scheda film
Un mondo nuovo è quello in cui la piccola Nora (Maya Vanderbeque), viene catapultata nel suo primo giorno di scuola. Il primo rito “iniziatico” a cui tutti sono sottoposti, comportando il distacco momentaneo e prolungato dal cordone ombelicale della famiglia.
L’ingresso del singolo infante all’interno di un nucleo sociale più ampio del precedente, comporta la necessità di osservare, apprendere ed adattarvisi.
L’edificio scolastico diventa il primo emblema di quell’autorità, a cui il bambino cede parte dei suoi diritti ad un corpo insegnanti, stante la necessità di imparare il concetto di organizzazione comune. Il banco individuale diviene il piccolo mondo “fisico” in cui si viene relegati per gran parte della giornata a scuola. Un’area dai confini ristretti, dove vengono assimilati i primi rudimenti della scrittura e dell’aritmetica, ma soprattutto la disciplina comportamentale data dall’insegnante.
Il contratto sociale sussiste però solo all’interno dell’edificio scolastico. Nei luoghi di aggregazione di massa, il rapporto tra il gran numero di bambini e la scarsità di insegnanti, ribalta ogni cosa.
Si osserva il vasto mondo del cortile scolastico ad “altezza di bambino”, in quanto DNA belga della Wandel, non può che condurla verso stile dei fratelli Dardenne, il cui cinema sembra imprescindibile per i nuovi cineasti europei.
La regista aderisce la macchina da presa allo sguardo di Nora, pedinandola ossessivamente, tramite la tecnica stilistica della semi-soggettiva. Il mondo attorno alla piccola risulta così perennemente fuori-fuoco, in quanto non-conosciuto popolato da figure de-private dei loro contorni.
Nello stato di natura del cortile scolastico, vige una condizione di “bellum omnia contra omnes”, in cui il singolo diviene un “homo homini lupus”.
Non c’è alcuna purezza nell’infanzia, perché il bambino assorbe ciò che vede come una spugna, non facendo alcuna distinzione etica tra bene e male. Anzi, approfitta della propria condizione, per mostrare la propria indole prevaricatrice, perseguendo uno spietato darwinismo sociale, del più forte contro il più debole.
Abel (Gunter Durret), fratello maggiore di Nora, viene da quest’ultima fermato nei suoi atti di malversazione contro i nuovi arrivati, finendo così per subire l’ira dei compagni più grandi, divenendo nuova vittima di bullismo.
Nora si scontra con l’impotenza, se non vera e propria indifferenza, dei “giganti senza volto” del corpo insegnanti, nei confronti degli atti di bullismo, via via sempre più umilianti e brutali, a cui viene sottoposto Abel, il quale le impone il silenzio.
Non c’è traccia di bontà, né alcun cedimento al buonismo in “Playground - Il Patto del Silenzio” (2021), solo una secca metabolizzazione interiore, di uno stato di fatto connaturato all’istinto umano stesso.
Maya Vanderbeque aderisce al personaggio di Nora, con uno spiccato senso naturalistico nella recitazione, eliminando il superfluo, per valorizzare tramite lo sguardo o una limpida quanto potente lacrima, un sorprendente distacco emotivo dalla situazione vissuta tramite la nichilista massima “quando aiuti gli altri le cose peggiorano”.
Nel rapporto stretto che lega Nora al fratello Abel, il legame viene subordinato alla logica del branco. Pure gli elementi adulti come il padre, oppure l’insegnante Agnes, capaci di penetrare nel campo visivo di Nora, sono persone incapaci di comprendere la psicologia dei bambini, in quanto pavidi o financo poco empatici.
Quello del cortile, è un mondo ferino, brutale e governato da ruoli di fatto immutabili. Se un padre che si prende cura dei figli al posto della madre che lavora, viene visto con scetticismo dalle compagne di Nora, perché contro-natura, viene di conseguenza come risultino insopprimibili i ruoli di bullo e vittima, connaturati allo status complesso delle relazioni di lotta (non solo fisica), che inizia sin dalla scuola.
Viene rigettata completamente la visione di Aristotele di uomo come “animale sociale”, capace di aggregarsi in comune con gli altri, tanto quanto le teorie di Locke su uno stato di natura in cui sostanzialmente gli esseri umani vanno d’accordo essendo governati dalla razionalità, ma scelgono di formare una società per una miglior gestione della comunità, a cui devono essere garantiti dei diritti inalienabili.
Vincono quindi gli studi di Hobbes enunciati nel "Leviatano" e nel "De Cive", nei quali emerge un’umanità individualista, che mira solo alla propria conservazione senza porsi alcun limite, scontrandosi per questo contro le uguali tendenze degli altri, portando quindi ad uno scontro eterno senza fine.
Trionfa la logica del primitivo, dove non c’è né giusto e né ingiusto, in quanto il potere politico è fuori campo - e comunque si dimostra inefficiente quando interviene -. Non ci sono regole, perché tutto rientra nel comportamento naturale, richiedendo sempre la presenza di un bullo carnefice e di una vittima sacrificale.
Un pessimismo antropologico allarmante, in quanto perfettamente aderente alla dimensione sociale quotidiana, ritratta in modo lucido e priva di retorica.
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