Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
Una serie di fotografie virate seppia corredate da didascalie ricordano la vittoria dell’Italia nella prima guerra mondiale, la borghesia arricchita che elemosina i reduci, Mussolini che fonda i fasci di combattimento, don Sturzo che fonda il Partito Popolare, nel gennaio del ’22 a Livorno al congresso del Partito Socialista nasce il Partito Comunista, mentre nel Paese dilaga la violenza fascista tollerata dalla magistratura e dai governi che si succedono. Il 28 ottobre il Fascismo sale al potere tra l’impotenza e la complicità delle istituzioni, nell’aprile del ’24 si svolgono le elezioni, condizionate dai fasci. Nel maggio si insedia il nuovo parlamento, l’onorevole Giacomo Matteotti, socialista, è uno dei deputati più vivaci e lucidi nel denunciare le violenze fasciste, i bilanci truccati dello Stato. Egli è una spina nel fianco da mesi e la pellicola si apre con il suo ultimo vibrante discorso nel quale contesta la validità delle elezioni, viziate dalla milizia armata e da una legge elettorale maggioritaria pro fascista. Contrastato dai più facinorosi, in testa il bilioso Farinacci, ras di Cremona e consapevole che i nemici potessero essere anche dentro gli stessi socialisti pronti a calarsi le braghe davanti a Mussolini. Al termine della seduta - nei corridoi – ai complimenti Matteotti risponderà sibillino con un …preparatemi una orazione funebre. In effetti, gli ex Arditi Dùmini, Viola, Volpi, Malacria e Poveromo coordinati e più che altro foraggiati da Marinelli fin dal 22 maggio, preparano il sequestro dell’onorevole Matteotti.
Il film racconta gli avvenimenti preparatori all’atto efferato, l’allarme per la scomparsa del deputato socialista e le inquietudini dei vari Turati e Amendola. Le opposizioni propongono l’astensione dai lavori parlamentari per lanciare un segnale al governo complice della scomparsa, il macabro ritrovamento avverrà più avanti. Anche all’interno del Partito Fascista la resa dei conti tra la Ceka (la polizia segreta) di Cesare Rossi e battezzata dal quadrumviro De Bono, ora ministro degli Interni, è al culmine. La mossa del Duce sarà di far arrestare i responsabili e in seguito la rimozione di alcuni uomini scomodi, in primis il vecchio generale De Bono. Il confronto tra opposizioni si fa più serrato e prevalgono le divisioni all’interno della stessa sinistra: la giovane stella parlamentare Antonio Gramsci vorrebbe proclamare uno sciopero generale coinvolgendo le masse operaie e contadine, ma i socialisti frenano. Egli – giudicandoli inerti, moderati financo passivi al dramma politico in corso, ritiene che questa politica ridarà fiato al fascismo in crisi. Lasciato polemicamente il comitato di minoranza, proseguirà le sue battaglie nelle fabbriche (e già nel dopo prima guerra mondiale accusò i socialisti di aver regalato gratis gli ex combattenti ai fasci di combattimento). Mentre la giustizia, qui rappresentata da un magistrato integerrimo, subirà delle manomissioni filogovernative compiacenti, Mussolini il 3 gennaio 1925 nell’aula di Montecitorio si assume la responsabilità politica, morale, storica (ma non penale, Turati dixit) di quanto accaduto sfidando ancora una volta come due anni prima il parlamento e il Paese. Su questo discorso autoassolutorio che consoliderà la dittatura fascista si chiude “Il delitto Matteotti” con ennesime didascalie conclusive dedicate ai protagonisti della vicenda storica.
Florestano Vancini, autore filologico e discreto della nostra cinematografia, firma un’opera a tesi importante scandita dalle musiche pedanti di Egisto Macchi e da una galleria di interpretazioni che rendono ancora oggi curioso e interessante il lavoro didattico svolto: Franco Nero (Matteotti), Gastone Moschin (Filippo Turati), Umberto Orsini (Amerigo Dùmini), Damiano Damiani (Giovanni Amendola), Vittorio De Sica (Mauro Del Giudice), Riccardo Cucciolla (Gramsci) e Mario Adorf (Mussolini). Questi ultimi due spiccano per le loro riuscite caratterizzazioni.
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