Regia di Stephen Frears vedi scheda film
«Che cosa è nata prima, la musica o la sofferenza?», si chiede nella prima scena di “Alta fedeltà”, guardando in macchina, Rob Gordon, trentacinquenne circa, una vita all’insegna della delusione sentimentale e della passione per la musica rock. E attacca il lungo monologo che ci accompagna per tutto il film, per una volta una voce “in campo” che s’interroga, ferisce, si diletta di autolesionismo, senza sostituirsi alle immagini e ai brani che rievoca, complementare, acuta, spiritosa, dubbiosa. Quasi un Woody Allen meno intellettuale, che si autoanalizza per tutto il corso del film. È chiaro che il problema principale era quello di tradurre in immagini il lungo romanzo di Nick Hornby, narrato in prima persona, senza tradirne l’incessante monologare, e la scelta di “trasformare il pubblico nella macchina da presa” (come ha detto John Cusack, interprete e co-sceneggiatore con D. V. DeVincentis, Steve Pink e Scott Rosenberg) è azzeccata. Stephen Frears, regista eclettico, ha sempre avuto la mano felice con la commedia e qui lavora con intelligenza sulle manie, lo slang e i ”codici” di gruppo e di sopravvivenza dei suoi personaggi: abbastanza complice da renderceli simpatici, abbastanza distante da non lasciarsi coinvolgere troppo e da non perdere, perciò, il ritmo e la lucidità. Quanto alle perplessità suscitate dall’ambientazione, che si è spostata da Londra a Chicago, ha ragione Hornby, che ha detto che il suo libro si occupa di faccende molto più complesse dei semplici dettagli geografici. E comunque, è un libro (e un film) su un certo stile di vita e di relazioni metropolitane, condivise ovunque (come ha dimostrato il successo internazionale del romanzo). Cast raffinato, tenuto insieme da John Cusack e dai suoi due impiegati-amici (Jack Black e Todd Louisio), con Tim Robbins con la coda di cavallo, Bruce Springsteen come “padre spirituale” e tutte le “ragazze del coro”; un dialogo, un tempo narrativo, un acume che non si allentano mai.
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