Regia di Brian De Palma vedi scheda film
De Palma dispone sulla scena i suoi pupazzetti animati, ma quando attacca la corrente non succede nulla.
Mission To Mars esce nel 2000, lo stesso anno di Red Planet (Val Kilmer, Carrie-Ann Moss, Tom Sizemore), il che rende inevitabile un confronto tra le due pellicole. Ebbene: mentre Red Planet presenta alcune suggestioni (oltre a punti negativi su cui non mi esprimo qui), Mission... non ne offre alcuna. Non c’è una singola scena che stupisca, emozioni, insomma provochi l’ooooh! dello spettatore, cosa che ritengo quasi indispensabile in un film fs. Se la fs non riesce a emozionare, a spalancare nuove finestre, a farci litigare con le nostre certezze, a che serve?
Mission To Mars è suddiviso essenzialmente in tre fasi. Nella prima c’è la preparazione al lancio, e in ciò somiglia ad Apollo 13 (Hanks, ancora Sinise, Bacon, Paxton, Harris: mamma mia!) con le sue scenette intimiste di americanità da barbecue, ma assai più sbrigative e senza sia resa la profondità dei diversi personaggi – quel che si dice una carrellata e via.
Nella seconda fase c’è il viaggio-incidente mortale-atterriamo alla bell’e meglio. L’interno della nave, tutto bottoni e lucine, mi ricorda Space Odissey – e non è un buon segno. La drammatica passeggiata spaziale in tute da passeggiata spaziale mi ricorda Space Odissey (per le tute) – e ancora non è un buon segno. Poi il capo (un Tim Robbins che più che un astronauta somiglia a un contabile) guarda l’orologio, scopre che sono le 5 ed è finita la benzina, fa ciao ciao e si sacrifica per il bene di tutti: scena ricca di pathos quanto la lettura di una bolla di scarico merci.
La terza parte è quella del Mistero. Solo che Gary Sinise ha nel frattempo assunto l’atteggiamento impiegatizio del suo defunto capo-missione, e il suo faccione sgranato (intendiamoci: Sinise mi piace, ma non qui) che dovrebbe denotare Alto Stupore e Scientifica Incredulità si rivela insufficiente nel trasmettere analoghe sensazioni nello spettatore. Il voltmetro segna zero: non c’è tensione.
Il finale sembra il parto di uno sceneggiatore newagista in astinenza da sigarette alla foglia di liquerizia. Un planetario da effetti speciali made in Korea (del nord) illustrato da un ologramma alieno a forma di cavalletta ci spiega che l’Universo è buono e anche noi saremo buoni, basta volersi tutti bene. Sinise si convince e resta su Marte. Gli altri no.
Questa roba è di Brian De Palma. De Palma? Purtroppo sì. Si capisce dalle inquadrature e soprattutto da quel distacco perenne tra camera e azione che rende distintivo il tratto del regista, nei cui film fa sempre capire che gli attori stanno recitando, e mai interpretando. I film di De Palma sono delle story-board animate e i protagonisti somigliano spesso a pupazzi un po’ ingessati, come statuine che si muovono a fatica. La ritualità depalmatica può avere proficui effetti in condizioni particolari, come il particolare Omicidio a luci rosse (con l’incredibile colonna sonora cult di Pino Donaggio) o il volutamente distonico Dressed To Kill, ma in ambito fs non fa gioco.
Ecco, ho trovato una sintesi che mi piace: in De Palma l’aria è immobile e non c’è mai vento. Figuriamoci su Marte.
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