Regia di Alberto Lattuada vedi scheda film
C’è sempre stato qualcosa di integerrimo,di anticonvenzionale nei ritratti di giovani donne di Alberto Lattuada,nella scrupolosità laconica con cui le guardava e che non subiva mai il sorpasso di un desiderio virile e che,contrariamente a quanto succedeva per esempio con Fellini,non supportava il pretesto per la proiezione di sé attraverso loro,né le manipolava per mascherare la paura di affrontarle.
Lattuada era l’uomo che con la cinepresa cercava di amarle come loro chiedevano di essere amate,e di conseguenza l’occhio del regista si avvicina moltissimo,nell’incipit allusivo senza pruderie,alla fanciulla dormiente che si desta di soprassalto,che sorride nel corpo senza che se ne senta immediatamente l’acuto,temperato da un momentaneo imbarazzo.
A questa età rischiosa e imprendibile Lattuada donava la sua concentrazione di cineasta che qui indovina una riservatezza più costante che altrove,quasi abolendo del tutto le maliziose scorciatoie tipiche della commedia italiana come pure la veemenza del dramma enfatico.
La grazia inconsueta ed atmosferica con cui Lattuada nasconde gli ostacoli alla vista di Francesca,perché non dubiti della legittimità delle sue intenzioni lungo il suo percorso,donano a questa circumnavigazione intorno al corpo di un’adolescente la chiarezza senza leziosità con cui una giovanissima donna,allora come oggi,decide di non rimandare più il confronto con la realtà e l’avvicina per non subirne più i continui richiami quotidiani,prima che questa realtà di vivere acquisti la perentorietà del desiderio in senso stretto.
Anche la città di Roma diventa un’altra città pur essendo del tutto riconoscibile ( e non potrebbe essere altrimenti),meno invadente e pigra,più agile nella sua solare,sempiterna accondiscendenza.
Non è impossibile cogliere alcuni difetti,soprattutto nella quasi uniforme rigidità interpretativa del cast (se si eccettua forse l’incursione squisitamente sopra le righe di Milly),in cui appaiono poco plausibili sia Marquand che Sorel,che danno l’impressione di defilarsi in mondo un po’ anonimo per non compromettere il curato fraseggio articolato sulla soave,incerta ma tenera Spaak.
Il dato che mezzo secolo fa doveva apparire sorprendente e in parte inaccettabile è stato sicuramente il tranquillo rifiuto di Francesca di continuare con una relazione esclusiva la scoperta della sessualità con un uomo assai più anziano,ma questo ripensamento senza remore non viene presentato con una pericolosa e inavvertita modifica della moralità della ragazza,e,anzi,avverte che non è non il caso di formulare un giudizio sulla personalità di una ragazza che in quel ripensamento conferma una forma inattaccabile di sanità morale e psicologica.
Lattuada non si lascia sfuggire l’occasione di disseminare lungo il film annotazioni efficaci cautamente sottolineate,come la malinconia un po’ sognante di una compagna che soffre per la plateale diffusione del suo sentimento omosessuale dichiarato però in forma privata; e soprattutto il brillante inserto di impacciato amore fraterno tra Francesca e Eddy,ragazzotto borghese con lo sguardo lungo che preferisce farsi da parte quando capisce di essere di troppo,consentendo che la sorella decida da sola.
Si riflette su quanto sia bello e necessario avere intorno a sé il silenzio per poter accogliere la verità di un’emozione caduca ma preziosa,cosa che conferisce al film la precisione di un trattato psicologico sugli sviluppi di un turbamento senza lacerazioni e che nel suo esprimersi stringe un accordo insperato con i propri nuovi sentimenti,dalla cui esperienza non si esce né felici né infelici,curiosi e svincolati dal possesso che non regala nessuna ulteriore profondità,il tutto reso senza l’opacità del moralismo o la pigra meccanicità della trasgressione.
All’apparenza fatta di niente,è un esempio di elegante compostezza con cui Lattuada si distanzia dal torbido che spesso ricorre in queste tematiche,e più che dirigere,guida la diafana Spaak con saggezza e calma lungimirante dimostrata,e forse superata,solo dal Pietrangeli di Io la conoscevo bene.
Orgogliosa nella sua delicatezza,all’epoca era una creaturina che stentava a sentirsi sicura di sé,ma Lattuada la protegge troppo perché non risulti credibile.
Non lascia il segno come attore e indietreggia davanti al suo personaggio con un po’ di torpore,forse non casualmente.
Era ai tempi uno dei francesi più assidui nei film italiani e,nonostante la volonterosità,come ragazzo di borgata e (diciamolo) marchettaro miracolato stona vistosamente,non intrigante né convinto:Renato Salvatori o Franco Interlenghi avrebbero fatto molto meglio.
L’unico personaggio che dia una scossa ad un film equilibrato con il suo fondo di tristezza,colto dall’interprete sul filo di un manierismo consapevole,ridanciano ed esausto al tempo stesso.
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