Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Interessante esempio di cinema iraniano, non lontano per stile da Kiarostami. I film offre una serie di storie in successione, cioè che si legano l'un l'altra tramite la venuta a contatto dei loro personaggi; in questo la pellicola assomiglia “Il fantasma della libertà” di Bunuel. Il loro comune denominatore è la triste condizione della donna nella società iraniana, dove è continuo oggetto delle vessazioni e dei maltrattamenti maschili, e soprattutto vittima di una legislazione che la discrimina e le impone dolorose limitazioni alla sua libertà. Accanto a ciò, va tuttavia detto che non mancano esempi di gentilezza e delicatezza dell'uomo nei suoi confronti, nei casi non istituzionalizzati e non previsti dai codici di comportamento (come alcuni passanti sulla strada, persino militari). La prigione è quindi chiara metafora della condizione femminile nella società degli ayatollah, dalla quale le povere donne cercano di fuggire ma vi si ritrovano sbattute di nuovo dopo poco tempo.
Lo stile è rigoroso e senza fronzoli, tanto che in certi momenti l'assoluta attenzione dedicata alle protagoniste e ai loro volti a scapito dell'ambiente circostante mi ha infastidito un po'. Ma il film è solido e compatto, e si può dire sicuramente riuscito. Alcuni momenti sono commoventi, altri crudi (come quando la donna abbandona la propria figlia perché qualcun altro se la prenda). E' buffo come le femministe siano presenti soprattutto nel mondo occidentale, e come si accaniscano contro presunte violazioni della loro dignità, mentre assai raramente si occupano della tremenda condizione (quella sì) della donna nella società islamica.
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