Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Jafar Panahi è l’emblema della ferocia del regime teocratico iraniano. Imprigionato e condannato una prima volta nel 2010 e di recente (già condannato a sei anni per propaganda contro il sistema) per aver espresso solidarietà a due colleghi cineasti accusati di libertà di espressione! Le opere di Panahi ci restituiscono, dagli esordi fino all’ultima pellicola “Gli orsi non esistono”, l’aria di un Paese represso e oppresso da un bigottismo estremo, vincolato ai dettami ortodossi del Corano e dell’Islam. “Il Cerchio” esprime con chiarezza le criticità o meglio la sistematicità di applicazione delle tradizioni e dei costumi retrogradi che riguardano principalmente le donne. Attraverso il metodo zavattiniano (il celebre pedinare, quasi per caso, la quotidianità e i suoi protagonisti, appresa dalla lezione del neorealismo italiano) di otto donne, l’autore ci mostra le difficoltà oggettive dell’universo femminile. Se viene al mondo una femmina, la famiglia dei suoceri non la accetterà perché la cultura maschile deve prevalere. La mancanza di diritti, i più elementari, si accanisce su due donne appena uscite dal carcere. Vorrebbero, l’una Nargess tornare nel paese natio, l’altra Arezou più disillusa e consapevole no. Per Nargess non resterà che vedere la propria terra dipinta, neanche con precisione, su un quadro. Il desiderio di fumare una sigaretta unisce tutte le protagoniste, visto senza pregiudizi come un momento di pausa, di sfogo, uno spezza tensioni, non come un vizio che veniva interpretato in occidente quale segno di emancipazione femminile. Tutte, tranne l’ultima che sfida le regole da far rispettare solo per le donne. Queste figure femminili sono reiette dai regimi ultraconservatori e dalla società teocratica e maschilista iraniana. Senza un uomo affianco non sei niente, è il messaggio netto e discriminante per loro. La società iraniana non prevede alcuna inclusione e rispetto per la donna. E ancora “Il Cerchio” non è solo l’espressione di un racconto circolare che si apre e si chiude, “Il Cerchio” è l’oppressione che circonda e non dà scampo. Tant’è che le protagoniste del racconto si ritrovano di nuovo nello stesso luogo dal quale erano uscite. Una libertà negata per i motivi più banali.
Panahi gira spesso con la macchina a mano, non per vezzo stilistico, ma perché le sue storie, ancora oggi, sono rubate dalla realtà. Con questo stile accentua il senso opprimente che va raccontando dal principio alla conclusione. Inoltre restituiscono il doversi nascondere delle stesse protagoniste, così facendo esplode una condizione veritiera, neanche verosimile, la finzione cinematografica diventa espediente per raccontare ciò che davvero accade. Entrambe, finzione e realtà, sono un’unica cosa, legate da un unico accorato afflato. I tempi morti, le attese, lo sbirciare da lontano, l’osservare a distanza, i rumori quasi assordanti della città di Teheran sono una colonna sonora iperreale, al quale possiamo dare un significato di indifferenza, di frenetico scorrere della vita di tutti i giorni senza fare caso ai drammi delle persone comuni. Quelle persone ritratte da Panahi in modo scarno, essenziale, a tratti irritante, non cercano mai la benevolenza dello spettatore. E’ questo stile, ripeto, che arriva meglio al cuore e alla ragione del pubblico occidentale. Ed un senso di impotenza accomuna tutti quanti, iraniane che interpretano e spettatori che guardano dall’altra parte dello schermo.
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