Regia di Barbet Schroeder vedi scheda film
Barbet Schroeder esordì a fine ’60 con un film sugli hippy arenati a Katmandu o da quelle parti, e già allora ci fu chi parlò di voyeurismo: voyeurismo intellettuale europeo sul mondo altro, anzi voyeurismo parigino, che ha continuato a marciare e marcia ancora. Il film dedicato ora a Medellín, Colombia, patria dei narcos, parte da un romanzo che non conosciamo ma che dev’essere tremendo, di Fernando Vallejo, e narra in prima persona di uno scrittore che torna in patria e la trova più disastrata che mai e che, essendo gay, si trova un amico adolescente gay venuto dagli ambienti più miserabili, che gioca la sua adolescenza giorno per giorno vivendo di morte, da sicario e da killer, in un paese dove la vita umana vale davvero niente. Bene, un vero scrittore o un grande regista potevano tirarne fuori un capolavoro, un demagogo tipo “cinema politico italiano” un filmone di denuncia e successo. Uno scrittore di destra o un regista di destra di statura alta e tragica un esempio di alto nichilismo; ma ci voleva un Céline, un Drieu, e non il fascismo incosciente e saccente che sembra essere di questo Vallejo, un personaggio, a giudicare dal film, peggio che odioso. In un festival veneziano pieno di omosessuali “politicamente correttissimi”, il film offre un esempio di omosessuale abbietto e di intellettuale abbietto. Ma il peggio è, ovviamente, il regista, autore del film più immorale che si veda da anni.
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