Regia di Ryûsuke Hamaguchi vedi scheda film
Hiroshima 2021, mon amour
… tesoro, puoi guidare la mia macchina
Sì diventerò una star
tesoro, puoi guidare la mia macchina
E forse ti amerò...
Una canzone dei Beatles come titolo internazionale, un racconto di Murakami alla base, due protagonisti e una girandola di uomini e donne intorno, la vita e i suoi giorni pieni di cose, belle, brutte, rabbiose, gentili.
Yûsuke Kafuku deve ritrovare la linea retta e cosa meglio di quel lungo nastro stradale che unisce Hiroshima a Hokkaido ai due estremi del Giappone?
Hiroshima-Hokkaido.
Bisogna attraversare tutto il Giappone per unire quei due punti della carta geografica
Hokkaido significa “ provincia del Mare del Nord”, un traghetto unisce l’isola alla terraferma e da lì si arriva fra le nevi di Sapporo, su Hiroshima inutile spendere altre parole, ma serve, e molto, vedere com’è oggi.
Il lungo viaggio notturno di Kafuku nella pianura fitta di appezzamenti coltivati, macchie arboree, strade ampie, perfette e solitarie, parte da sud e arriva fra le nevi del nord dopo ore di traghetto.
Sul traghetto che li riportava ad Hokkaido, nel 1951, Kurosawa Akira faceva incontrare Kameda e Akama de L’idiota, e il tracciato segnato per loro dal destino cominciò il suo corso.
Alle spalle di tutti c’è Dostoevskij, il paesaggio di neve e ghiaccio della nordica Sapporo bene si concilia con le albe livide della San Pietroburgo del principe Myškin, mentre l’asettico skyline postmoderno di Hiroshima, dove “andare da qualche parte” non è più farsi un giro al Memoriale ma guardare dalla passerella di un centro servizi la bocca enorme di una gru che afferra spazzatura e la butta al macero, ci riconsegna al presente.
“Non sembra neve?” dice Misaki a Kafuku . Certo, con molta fantasia sembra neve.
Fare film è vivere nel presente rivolti al passato e guardando il futuro, ecco allora un buon film, e Drive my car lo è.
Oggi nessun distributore oserebbe fare alle sue tre ore di durata quello che fecero, storpiandolo, alle tre ore di Kurosawa, a volte la storia va avanti invece di girare su sé stessa, e Hamaguchi Ryusuke, astro emergente della cinematografia giapponese, viaggia su strade lastricate da padri celebri.
"Adoro Dostoevskij, ma non filmerò mai L'idiota dopo Kurosawa" disse Tarkovskij, ma dimenticare Dostoevskij è impossibile, anche per Murakami che ha scritto il racconto.
Drive my car è segnato da un umanesimo profondo, una credenziale che nel tempo in cui viviamo è la classica pepita d’oro trovata in un filone aurifero alterato.
Tre ore che scorrono veloci come quella Saab Turbo rossa guidata da una piccola, silenziosa, non bella ma intensa ragazza che sa fare solo quello, guidare, sua madre non le ha insegnato altro, aveva 14 anni quando doveva accompagnarla la sera e riprenderla al mattino al night dove lavorava. Per il resto erano botte, e un padre non si era mai visto.
Accadeva a Hokkaido, ora la casa è un mucchio di detriti crollati sotto una frana con la madre dentro.
Lei si era salvata, forse poteva aiutare la madre a farlo, non lo fece e se ne andò a Hiroshima, il punto più lontano da lì, a guidare camion della spazzatura, con tutti i suoi silenzi e i suoi sensi di colpa.
Ora fa questo lavoro, car driver, l’ha ingaggiata la casa di produzione di Kafuku che non vuole che lui guidi, ha un glaucoma ad un occhio, non scherziamo!
Kafuku è un attore-regista, sta provando Zio Vanja, una volta lo recitava, ora non più,“E’ terrificante, ti costringe a guardare in te stesso”.
Dirige con severa e calma competenza un gruppo di attori che sperimentano un testo multilingue, compresa la lingua dei segni, con didascalie sul grande schermo in fondo al palcoscenico.
Kafuku ha una moglie che inventa racconti durante gli amplessi, caratteristica su cui ha creato il lavoro di sceneggiatrice. Indubbiamente si amano, anche se lei va con altri uomini e lui lo sa, anzi, un rientro a casa inatteso lo mette di fronte alla scena sul divano.
Educatamente fa dietrofront e chiude la porta.
La donna muore di emorragia cerebrale, lui la trova a terra, come una frana improvvisa non c’è scampo e chi resta si ritrova a fare i conti con le macerie.
Kafuku e Misaki s’incontrano, le loro solitudini somigliano, come i sensi di colpa e le parole che non sono state mai dette e mai lo saranno.
Storie molto diverse che arrivano a toccarsi per gradi progressivi di avvicinamento.
Lei ha l’età che avrebbe avuto la figlia morta a quattro anni di Kafuku, ma lui non è il padre che non ha mai avuto, è “qualcuno che ha molto sofferto. I vostri occhi sembrano chiedere: perché debbo soffrire ancora?”
Dunque trovarsi è vedere lo sguardo dell’altro, e torniamo a Dostoevskij
“Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo e farla propria senza esitazione”.
Le stratificazioni del film sono molte, come l’anima di una roccia che rivela, deposti l'uno sull'altro, il tempo trascorso e le vicende, e come in una parete rocciosa le pieghe e le intersezioni parlano di incontri casuali di materia, di espansioni di vita.
Come un lungo viaggio iniziato solo per fuggire da un posto senza sapere dove andare in un altro.
Ma la casualità non esiste, nell’abitacolo di una macchina si vive in un non luogo che però è nello spazio, il tempo diventa relatività assoluta, può sfrecciare o interrompersi, può portare dove non ti aspetti, ma lì puoi ritrovare te stesso che eri convinto di aver perso o accettare quello che sei diventato.
Fra le nevi di Sapporo/Hokkaido i due si trovano, non tanto tra loro quanto ognuno con sé stesso.
Il finale è un bellissimo coup de théatre, Zio Vanja, la lingua dei segni fatta di misteriosa gestualità, Kafuku che riesce a recitare ancora quella parte, Misaki che fa la spesa al supermarket e finalmente si veste e pettina come Dio comanda.
“Vado fra gli uomini, ignoro il domani ma sento che comincia una nuova vita” Dostoevskij,L’idiota.
Hiroshima 2021, mon amour.
www.paoladigiuseppe.it
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