Regia di Ryûsuke Hamaguchi vedi scheda film
In un Giappone moderno e anonimo una bella storia di guarigione e maturazione interiore.
Ecco un film giapponese molto lontano dalle storie di criminalità e dal genere iper-violento in formato Kitano. È un'opera che si prende i suoi tempi, che non ha fretta procedere, e che racconta con semplicità e originalità una storia umanissima di superamento del dolore, specie se impastato ad un senso di colpa difficile da giudicare.
In sottofondo e a parziale commento, scorre il celeberrimo dramma teatrale “Zio Vanja” di Anton Cehov, che non per la prima volta viene utilizzato in questa chiave (penso a “Vanja sulla 42esima strada” di Louis Malle).
I due protagonisti hanno in comune l'essere entrambi segnati da un lutto problematico, perché intrecciato a responsabilità personali che non sono facili quantificare. Forse la ragazza ne ha di più, ma è davvero arduo stilare giudizi netti.
Tra loro c'è evidentemente anche altro in comune, perché a poco a poco i due finiscono per riconoscersi. Si tratta comunque di un cammino lento, un arduo percorso interiore che ha bisogno dei suoi tempi per giungere a maturazione.
La vicenda suggerisce anche che un elemento chiave per superare il dolore è dirlo, esprimerlo, vomitarlo. Il tenerlo nascosto dentro di sé, e persino il negarlo, lo rendono praticamente impossibile da superare. Lo stesso vale per il senso di colpa: deve essere messo a fuoco, espresso e analizzato. E chi non conosce il perdono di Dio deve accusarsi, e poi perdonare se stesso. La colpa viene così smussata e lenita, e quindi metabolizzata.
Il titolo fa un po' il verso alla famosa canzone dei Beatles, ma rimanda, forse, anche al fatto che a volte bisogna farsi aiutare e guidare per uscire dal labirinto del proprio dolore; processo che avviene tuttavia in modo reciproco.
L'unica mia perplessità riguarda la presenza di un'attrice sordomuta (!) che recita Cehov, ma per il resto è un bellissimo film senza sentimentalismi e buonismi, ma profondo, che ha qualcosa da dire sul cuore umano, il quale è in fondo uguale in tutte le culture. All'inizio ci vuole un pizzico di pazienza, ma essa viene poi abbondantemente ripagata.
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