Regia di Ryûsuke Hamaguchi vedi scheda film
Timidamente, ma non troppo, sembra sia l’unico cui questo film non abbia suscitato tutti questi clamori. Allergico alla lentezza? Refrattario ai dialoghi centellinati? Ostile verso atteggiamenti irreali? Probabilmente un po’ tutto, nonostante una predisposizione iniziale scevra da preconcetti. Questo spottone Saab mi ha lasciato perplesso a cominciare da alcune scelte di base, come il silenzio del protagonista sul tradimento della moglie o l’uscire di casa con lei che dice in tono grave: “Stasera ti devo parlare”. No ma dico: immaginatevici.
Ovviamente tutto necessario per lo sviluppo della pellicola e dei richiami a Checov e Beckett, dove i personaggi attendono a basta, spesso incapaci di (re)agire.
Oltretutto in una messa in scena d’avanguardia, una rappresentazione futurista dello Zio Vanja con linguaggi misti (anche dei gesti) e attori che non si comprendono l’un l’altro. Un film che scorre un po’ a teatro e un po’ (molto) a bordo di questa Saab che impareremo a conoscere da tutte le angolazioni in riprese (notte, giorno, gallerie, sorpassi, traffico, andata, ritorno) al limite dell’estenuante (mi aspettavo, anche nell’intermezzo sul traghetto, una decina di minuti di onde fisse a susseguirsi..); un’autista carica di rimorsi che sfogheranno assieme ai rimpianti del regista protagonista solo al termine di 179 minuti di peregrinazioni mute e soluzioni visive spesso accessorie. Sicuramente il pathos non ha tracimato e mi sono soffermato sul dito perdendomi la luna indicata, ma comunque ho trovato rudimentali anche i passaggi chiave (“devi conoscere te stesso per poter conoscere gli altri”) e tutto costruito per accendere emozione, ma attraverso terreno ovvio e visto mille volte.
Lui che non vuole l’autista perché abituato e felice di guidare la sua macchina, accetta quasi per forza e si siede sul sedile ..posteriore! Oltretutto di una macchina a due sportelli? Scomodissimo e teatrale (i richiami si accavallano) ma elementare espediente narrativo per descrivere l’evolversi del formale rapporto passeggero/autista fino alla complicità del sedersi accanto, dopo un paio d’ore e qualche stramigliaio di kilometri, infrangendo una sorta di divisione emotiva che sorprenderà giusto chi vuole farsi sorprendere.
Ma ce ne sarebbero di altri inceppi: dall’attore/amante della moglie scelto quasi masochisticamente dal regista e i suoi comportamenti grotteschi (il ridicolo non voler essere fotografato dai fans che lo porterà a scelte deliranti), il continuare a studiare una parte che, guarda caso, si rivelerà provvidenziale, fino alla giovane autista tormentata che d’incanto passerà dalla maschera imperturbabile al completo aprirsi (come col fumare nella Saab, vietatissimo fino ad un fotogramma prima).
Soluzioni spesso ingenue che vorrebbero stupire, dialoghi scarni e al limite del grottesco, titoli del film dopo una mezz’ora solo per illustrarci una sofferenza covata nel profondo e uno stacco emozionale da non voler/saper gestire, un finale sibillino sempre con la Saab turbo protagonista (gliel’ha regalata lui o vivono insieme una nuova esistenza?) e la giovane autista che guida in mascherina anche da sola (siamo arrivati ai nostri giorni - da Checov a Covid -), finalmente pettinata e senza più cicatrice sulla guancia (ma forse è solo una mia impressione), quasi a sottolineare che in questo film tutto avverrà, ma con calma, maledetta calma, aspettando Godot o chi per lui.
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