Regia di Alexander Payne vedi scheda film
"Election" è la dimostrazione di come si possano fare film originali, spiazzanti, divertenti, sottilmente eversivi, anche partendo dalle situazioni più trite: un classico dei classici, per il cinema e la TV statunitense degli ultimi 20 anni, foriero di impresentabili fetecchie, è il "teen-movie". Ambientazione: high-school. Personaggi: maestri sfigati e/o allupati; alunna secchiona/odiosa/sexy; alunna pacioccona/problematica dal piglio "tranchant"; alunno stupido/buono/atletico. E il solito meltin-pop di comprimari. Aggiungiamoci soundtrack da mainstream 90's alla Chris Columbus e una messinscena dove ogni artificio (dai frequenti fermo-immagine al dolly che si eleva all'interno di una cameretta) è votato alla costante ricerca di un risvolto ironico. C'erano tutti i presupposti per un'insopportabile commediola yankee leziosa, esibizionista e, in fin della fiera, insincera. E invece no. Payne riesce laddove pochi altri sono riusciti (giusto il Wes Anderson quasi coevo di "Rushmore", uno dei suoi film più garbati e genuini, prima che cominciasse ad allestire quel suo, per me, indigeribile album di figurine senza vita che popola quasi tutti i suoi film successivi; o in parte anche il Jared Hess minimalista, straniato e stolido di "Napoleon Dynamite") e infonde salutare ed onesta cattiveria nel tessuto del sotto-genere più innocuo e conformista di sempre. Ma al di là della generosa dose di acido solforico versato su usi e costumi della middle-class a stelle e strisce, la vena anarchica di "Election" si manifesta soprattutto nella forma adottata. "Election" è un caleidoscopio di temi, voci, umori, disgressioni e trasgressioni. E' un "racconto" a focalizzazione multipla (diversi personaggi si alternano alla voce-off, permettendo quindi maggior approfondimento psicologico ed emotivo), impressionista, ellittico, episodico; la narrazione comincia in medias res, al termine di enigmatici titoli di testa collocati in un punto qualunque della vicenda; la cronologia viene fatta allegramente a pezzi, senza l'ossessione tipicamente americana e post-moderna di voler far quadrare i conti a tutti i costi; è un film libero, gustosamente caotico, asimmetrico, e in questo si avvicina più a certo modernismo europeo anni 60 e 70 (il free-cinema, la nouvelle-vague, quell'idea di cinema volutamente aperto, irrisolto). Perchè quel finale a Washington DC? E cosa faceva Tracy in quella limousine? E perchè Jim ha eliminato quelle due schede, manipolando il risultato delle elezioni scolastiche? Ma soprattutto: a Jim interessa la scappatella con Linda o una storia con Tracy? E quest'ultima, dopo la relazione proibita con l'altro professore, ha davvero completamente represso il sesso in favore della "politica"? Ancora: perchè Tammy, lesbica e grillina ante-litteram, si è accollata le colpe di Tracy? Forse ne è segretamente attratta e non lo sa nemmeno lei? Payne non da risposte, e in questa reticenza rivelò sin da quei tempi di essere l'erede ideale, a distanza, di quella New Hollywood che preferiva fragilità e casualità a solidità e logica. Ma c'è anche qualcosa di vagamente bunueliano in questa girandola di atti mancati, desideri inconfessati, vuoti cognitivi, gesti di insubordinazione, illusioni infrante, riflessioni interrotte (la differenza fra "etica" e "morale", introdotta a inizio film e poi abbandonata: ma è davvero così importante?), codici stilistici sabotati dall'interno, aspettative del pubblico crudelmente disattese, rituali dissacrati (Payne distrugge tutta la retorica su cui si basano i pilastri della società USA: democrazia, famiglia e religione vengono fatti saltare e ne viene rivelata la sostanza cinica, arrivista, superficiale, nonchè l'egoismo affettivo e la frustrazione sessuale). Un film virtuosistico senza essere irritante, destrutturato senza perdere di vista i personaggi, disincantato senza accasciarsi all'ombra del grande albero nichilista dei nostri tempi. Un gioiello di fantasia e libertà, per scuotere l'America e il suo immaginario atrofizzato.
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