Considerando ad oggi l'intera produzione cinematografica di Jane Campion, una delle registe di maggior rilievo degli anni 90, potremmo situare Holy smoke in una posizione di secondo piano della sua filmografia, non tanto per il contenuto ma riguardo alla forma e ad un linguaggio che sembra una deriva forzata dallo stile dei Coen e dalle contaminazioni visivo lessicali introdotte in quel decennio. Psichedelia, musica accattivante, immagine super satura e dialoghi disarticolati ma fluenti, prodotti da personaggi tanto comuni quanto improbabili nel loro comportamento. Sulla sostanza niente da segnalare rispetto ai precedenti capolavori, Ruth e' la consueta eroina della Campion destinata, quando esce dal suo ruolo sociale di femmina subalterna all'ordine sociale maschile, a pagare duramente il peso delle sue scelte, ma stavolta senza esasperare i toni drammatici con quel lirismo anche visivo che la contraddistingue ma a sorpresa inoculando pesanti dosi di ironia ad alta velocità. Durante un viaggio in India, la giovane Ruth resta fulminata da un santone del quale diventa una fedele seguace. Dall'Australia i suoi famigliari preoccupati, prima la fanno ritornare con uno stratagemma, poi l'affidano ad un esperto deprogrammatore spirituale PJ, che prometterà di portare a termine il suo lavoro in tre giorni isolandosi con la donna all'interno del deserto australiano. Se appare evidente il desiderio di cambiare registro al suo cinema, la Campion si arena anche abbastanza presto non sul rinnovamento dell'immagine ma sulla tenuta di una storia troppo ansiosa di ritornare in fretta nei territori della normalità. Cosi ad una primissima parte brillante e piena di promesse, ne segue una molto più corposa che si sgonfia col passare del tempo nel quale la credibilità dei personaggi e dei valori in gioco non corrispondono più al taglio iniziale della vicenda, affrettando e banalizzando finalità e contenuti per arrivare a soluzioni molto più annacquate di quelle disarmonie che la regista padroneggiava bene in altre occasioni. Se la riconversione vera o presunta di Ruth avviene rispettando a grandi linee quelle caratteristiche semantiche che la donna Campion deve "offrire" cioè una riconquista di sè attraverso la propria negazione, oppure con l'imperfezione fisica elevata a completamento della bellezza spirituale (qui rappresentata dalla naturalezza del corpo di Kate Wislet tutt'altro che in sintonia con i canoni estetici del momento), è nel personaggio maschile PJ, un Harvey Keithel in versione MrWolf risolutore di problemi, che entrando in relazione con Ruth piomba in conflitto con se stesso, col suo ruolo, con la sua stessa funzione di professionista avvezzo a tutto e di maschio in maniera precipitosa e maldestra. Dando per assodato un latente spirito femminista della regista tesa a costruire un immaginario al femminile interessante, senza avere mai avuto bisogno di demonizzare l'altra meta del cielo, è proprio con la gestione del personaggio di PJ che le contraddizioni interne al personaggio perdono di credibilità, di fatto minando l'intera impalcatura narrativa. Perchè sia plausibile la trasformazione di PJ, dovrebbe essere meno trascurata la strampalata illuminazione di Ruth che deve debellare, come se ne potessimo considerare in termini del tutto ironici la sua "magica"possibilità ma la regista opta per la commedia sentimentale cancellando qualsiasi traccia di mistero, sia verso l’ipotetica fede o verso la tecnica persuasiva dell’uomo. Ulteriore punto di caduta sarà l’entrata in scena di Pam Grier (la mitica Jakie Brown tarantiniana) che nei panni della moglie collaboratrice di Pj non può che presumere la più banale delle relazioni extraconiugali dell’uomo. Ma non era uno avvezzo a lavorare su casi analoghi? Il registro che prevale invece diventa quello farsesco, il dramma interiore si esplica in melò filotelevisivo, ne consegue una perdita d'identità del film che non sa più essere leggero ma che non può più assumere una veste drammatica sostenibile. E mentre si perde la creativa leggiadria dell'inizio compresa l'abilita tecnica con cui la regista ha nutrito il suo pubblico, la storia si consuma in una storiella molto meno complicata. Non basterà la ricomposizione di un nuovo quadro familiare allargato e innovativo in puro marchio Jane Campion a risollevare un film non proprio riuscito come questo.
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