Regia di Miguel Littin vedi scheda film
Ci sono dei connubi che, già sulla carta, sono quasi inevitabilmente destinati al disastro: un cineasta militante degli anni di fuoco (fine ’60-metà ’70), il cileno Miguel Littin che, nonostante il rientro in patria a metà degli anni ’80, non ha più ritrovato la forza di “La tierra prometida”; uno scrittore, Luis Sepúlveda, che si cimenta per la prima volta con la sceneggiatura; uno sceneggiatore di professione, Tonino Guerra, che vive da decenni di rendita e che di recente ha fatto danni inenarrabili, per esempio nei film di Anghelopulos. Tutti insieme per un film d’avventura, tra passione e leggenda, immerso nello scenario selvaggio della Terra del Fuoco. La storia di Julius Popper, che nel 1860 prende possesso della Terra del Fuoco per cercare l’oro e diventa un cacciatore di indios, è un’epopea che vorrebbe coniugare atmosfere del West (anche il West barbaro del brasiliano “Antonio das Mortes“ di Glauber Rocha, capofila della rinascita latino-americana anni ’70) con suggestioni metaforiche d’autore. Ma sguardo e ritmo non sono né onirici né avventurosi, ma quelli un po’ spenti di una saga televisiva. E Popper finisce per essere non Aguirre, ma un John McCabe senza il dono del mito.
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