Regia di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne vedi scheda film
Rosetta non sa cosa significhi vivere. Per lei, nata ai margini di una società che consuma in fretta e distrattamente esseri umani e beni, la vita è la sopravvivenza. Il puro contingente, una lotta dura ed incessante per la soddisfazione dei beni primari: mangiare, bere, dormire. Non c’è spazio per altro, nella sua giornata trafelata. Nessuno le ha mai mostrato o spiegato altro: non ci sono sogni o aspirazioni, ragionamenti complessi o analisi. Non c’è un mondo interiore, neppure una voce per il dolore, una melodia malinconica per una infanzia certamente negata. Tutto è tremendamente basico, semplice, superficiale. I suoni aggressivi della città, le parole gridate come armi di difesa primaria. Rosetta vive in uno squallido campeggio in una periferia urbana dove sei quello che hai: pochi franchi ti danno un letto, l’acqua, il gas. Quello che hai lo devi pagare: nulla di più, nulla di meno. Nella solitudine (in effetti mi pare non compaiano altri abitanti se non il gestore), nel silenzio, in un individualismo senza appello dove è impensabile non solo un aiuto disinteressato, ma neppure la grazia gratuita di un sorriso. Nella sua cosciente ingenuità di adolescente, Rosetta è convinta che la “normalità” stia tutta in una minima dignità economica. Per raggiungerla, seguendo un proprio rigore, morale, l’unica strada percorribile è il lavoro. Un lavoro, quando presente, senza competenza e senza specializzazione, e per questo preda degli eventi più disparati: tagli di personale, riduzione di costi, capricci padronali, temporali d’autunno. Ma è quella l’ancora a cui aggrapparsi per non sprofondare nel buco nero. Così vicino, così pericoloso: la madre alcolizzata, e Rosetta che ha paura di bere anche solo una birra; la madre che si prostituisce per pochi spiccioli, Rosetta che non riesce nemmeno a guardare in faccia un ragazzo; la madre che ha smarrito per strada la voglia di combattere, Rosetta che non concede tregua alla propria grinta; la madre che si autocommisera, Rosetta che sopporta i crampi alla pancia senza parlare. E’ un mondo maschilista, quello in cui la ragazza si muove: maschio il gestore (oppressore, dittatore) del camping; maschi i datori di lavoro. Eppure sbiaditamente matriarcale: la famiglia (Rosetta che non si ricorda neppure come si sta a tavola, men che meno cosa sia un pasto completo) è morta, resuscitata dalle proprie ceneri in un nucleo autogestito di solo donne dove l’adulta fa la bambina,e la bambina è costretta in ruoli genitoriali molteplici, ed insopportabili per le proprie gracili spalle (come possono quelle spalle spostare sacchi di farina? Lo fanno, se devono. Senza lamenti, senza commenti). E’ un sistema solare senza più il sole al centro, dove i pianeti vagano senza meta e in orbite irregolari e imprevedibili. Freddi ed isolati. Le regole, se c’erano, buone o cattive che fossero, si sono perdute. Nel vuoto di un universo fatto di nulla. Ma è ovvio, questo lo pensiamo noi, spettatori più o meno istruiti (pure educati forse) e certamente smaliziati. Rosetta non ha tempo di pensare, corre sempre. Non può vedere, non sa riconoscere, neppure una mano tesa: quella di Riquet. Nella foga di sfuggire al buco nero, a volte, il suo passo si fa così veloce che inciampare e scivolare è inevitabile: così, guarda l’amico (quasi) affogare nello stagno, incapace di un moto di pietà o compassione, esattamente come la madre aveva fatto pochi giorni prima con lei, sfuggendo ad un tentativo di disintossicazione. Così pensa di poter “vendere” la propria innocenza (esattamente come la madre il proprio corpo) denunciando un amico, per ottenerne in cambio l’agognato lavoro. Così, pensa di poter tradire la fiducia (come la madre mille volte, con lei) di chi le ha dato un po’ di calore,solo perché il “fine” è nobile: creandosi, nei fatti, “giustificazioni”, che sempre più la inghiottono, nel buco. Povera Rosetta: nessuno a guidarla, nessuno a riprenderla o bacchettarla, nessuno a spiegarle. Ciò che pare così ovvio, eppure così inaccettabile, per una come lei che ha sempre lottato con i denti e le unghie per il minimo del minimo: non è mai ciò che si ha, che conta. Nel campeggio o in una casa di lusso; per un uovo bollito o del caviale. Quel che resta, è sempre ciò che si è. Come individuo certo. Ma anche come soggetto sociale. Perché la povertà economica, per quanto tremenda, è sempre metafora di una povertà anche peggiore: quella emotiva ed intellettiva. Perché il dolore non ci rende mai più forti, solo più duri. Rosetta lo capisce, alla fine. Di essere stata ingannata, di avere creduto alla favola brutta di questo mondo che crediamo di mordere ed invece ci fagocita e ci digerisce in nome del profitto e del possesso. Era già sprofondata, Rosetta. Stava già affogando. Ma in un gesto estremo, drammatico e dignitoso, si aggrappa e si trascina a riva. Senza ben capire il senso del tutto, chiede per sé solo la pietà della morte. Ma è il caso a decidere per lei. Ed il suo pianto finale (l’unico) è liberatorio. Carico, questa volta sì, di aspettative e di speranze: quelle naturali di una giovane donna. Quelle veramente primordiali e semplici: l’amore, la condivisione, la compassione, l’amicizia, la protezione, l’aiuto.
Se di “film di denuncia” e “critica sociale” si può parlare (io lo vedo personalmente più come “intimista” o di “formazione”) essa è certamente assai più radicale che non la banale messa in scena di un mondo di reietti e dimenticati alla ricerca di una “normalità” che fa rima con lavoro, nell’occidente ricco, cieco e sordo. “Rosetta” è un’opera “vitruviana” esattamente come il disegno di Leonardo. Ambisce a ricordare a tutti noi che al centro dell’universo ci sta sempre l’uomo (o la donna): una verità tanto semplice quanto, pare, dimenticata. In questo senso, concordo, quest’opera era assolutamente “necessaria”. E, a seguito duplice visione in tempi ravvicinati, posso concordare con le lodi tecniche già ben argomentate da altri utenti: sicuramente un’interpretazione femminile splendida; regia (e fotografia)lucida e senza fronzoli sempre “sul tema”, addosso alla protagonista a frugarne l’anima che si vede dentro gli occhi; sonoro scarno e “documentaristico”; sceneggiatura essenziale e consequenziale.
Però, un’opera d’arte deve “colpirmi”, deve “colpirci”. E lo può fare solo attraverso le vie della nostra (o della comune) anima, giù, fino allo spirito. E purtroppo, per mia natura, o forse per mia cultura “Rosetta” non ha fatto questo, con me. Se per “Lourdes” ammisi la mia inadeguatezza ad una comprensione profonda, non riuscendo a ritrovarci i miei punti cardinali, qui è proprio la mia consapevolezza sociale e personale (mancanza di pietà?) a rendere ovvio, addirittura superfluo, il messaggio del film. E’ una valutazione intima. Un limite solo mio.
E questa recensione, nella sua freddezza, lo rispecchia in pieno
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