Regia di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne vedi scheda film
Film rigoroso, essenziale, morale, certo impegnativo, con una protagonista testarda, in guerra contro il mondo, neanche troppo simpatica (per ottenere lavoro tradisce l'unica persona che le ha dato una mano). Dopo l'ottimo e più coinvolgente "La promesse", ancora uno sguardo lucido, lancinante ed impietoso su un mondo a parte, firmato dai fratelli Dardenne che conquistano così la loro prima palma d'oro a Cannes.
Voto: 7 e mezzo.
Tra le recensioni in rete quella di Gianni Canova mi sembra che esprima al meglio il senso profondo del film.
"Entra in scena di corsa, Rosetta. Cuffia bianca sulla testa, attraversa come una scheggia l’interno di una fabbrica da cui sta per essere licenziata. Vive di corsa, Rosetta. Vive con rabbia e con furore. Lo fa perché quelle come lei non possono che vivere così: figlia di una madre alcolizzata che si prostituisce per una bottiglia, condannata a un’esistenza tutta ai margini della società, Rosetta lotta con le unghie e con i denti per conquistare il suo diritto alla dignità. Cioè al minimo necessario per vivere umanamente: una casa, un lavoro, qualche amico. E, magari, la possibilità di non svegliarsi ogni mattina nello squallido campeggio di periferia, pieno di roulottes e di rifiuti, in cui la malasorte l’ha relegata. Non sappiamo nulla di lei: né di quello che era né di quello che diventerà. Sappiamo solo che attraversa l’esistenza a passo di corsa nel timore che la sua "marginalità" finisca per farla scomparire nel nulla. Non cammina mai, Rosetta. Piuttosto corre, ansima, scivola, saltella. Attraversa a balzi l’autostrada, si infila sotto reti di filo spinato, si inoltra nei sentieri del bosco. Che indossi la sua gonnellina grigio-cenere o i suoi jeans slavati, percorre il set (e l’inquadratura) con un passo sempre leggermente distorto rispetto ai modi consueti del camminare. I fratelli Dardenne la "pedinano": macchina a mano, collocata di preferenza alle spalle del personaggio, attaccata come una ventosa alla sua incontenibile vitalità e mobilità. Per consentirci di vedere "quasi come lei". E, nello stesso tempo, "per farci vedere lei". L’una e l’altra cosa assieme, con una scelta di punto di vista che è tra le cose più efficaci e più toccanti del film. Solo qualche volta, quando Rosetta si ferma all’improvviso, la macchina da presa (Super 16 gonfiato in 35 millimetri) ne approfitta per scivolare leggermente in avanti e bloccare il personaggio in alcuni indimenticabili primi piani. Si pensi ad esempio alla scena in cui Rosetta si allontana di corsa dopo aver salvato in extremis Riquet che stava per lasciar affogare nel fiume: la macchina la insegue, sfiora da dietro il suo capo, esita per un attimo sul volto e scorre via. È l’esitazione di un istante: un indugio, una tentazione, un tentennamento. Ma la bellezza di Rosetta è prima di tutto qui: in questi primi piani "sospesi", in questi attimi sottratti al fluire del tempo. In questo bloccarsi del cinema su sé stesso, in un’immobilità che ritorna alle origini primigenie dell’immagine, al suo primordiale potere di significazione e di rivelazione. Non è un film "realista", Rosetta. Non lo è nella stessa misura in cui non lo era, in fondo, nemmeno il film che ha dato fama e prestigio internazionale ai fratelli Dardenne (La promesse, 1996). Là, un quattordicenne impegnato nel traffico clandestino di manodopera di immigrati africani alla periferia di Liegi tradiva la fiducia e l’amore del padre per mantener fede alla promessa fatta a un sans papier morente dopo essere precipitato da un’impalcatura in un cantiere, qui una ragazzina precocemente umiliata e offesa dalla vita tradisce – denunciandolo – proprio l’unico personaggio che le aveva teso una mano e che aveva cercato di aiutarla a trovare un punto di riferimento nel mondo. Ma non è la dialettica tradimento-lealtà il principale filo rosso che lega i due film dei cineasti belgi: a colpire, in un caso come nell’altro, è soprattutto il grande rigore formale, è la purezza quasi rosselliniana dello sguardo che essi proiettano sul mondo. Quello di Rosetta è un mondo fatto di argini (fisici, geografici, paesaggistici, sociologici) e di margini, di divieti e di sensi vietati, di porte chiuse e di reticolati. È un mondo senza musica (l’unica sequenza "musicata" è quella in cui Riquet invita a cena Rosetta e le fa ascoltare la rudimentale registrazione di un assolo di batteria), dove la sottolineatura acustica del sonoro ambientale (fruscii di passi sulla ghiaia, stridori metallici di reticolati divelti, tonfi sordi di piedi che corrono nel fango, sinfonie di respiri affannosi) attira l’attenzione sulla fenomenologia dei dettagli comportamentali e sottrae allo spettatore ogni possibilità di elaborare un riscatto estetico del mondo rappresentato. Rosetta non racconta una storia: piuttosto, lascia agire un personaggio, e lo osserva. È la fenomenologia del suo vivere di corsa, la messa a fuoco di un desiderio di integrazione e di normalità destinato a essere perennemente frustrato. Non ci sono scene-madri, in Rosetta. Se in La promesse le scene-madri restavano fuoricampo, quasi a voler rinviare alla vita (e al non visibile, al non filmato) il senso del film, in Rosetta le scene-madri sono addirittura impossibili, tanto in campo che fuori. Non ci sono eventi, nella vita della protagonista. Non svolte, non salti, non progressioni. Solo la perenne ripetizione degli stessi gesti (la pesca di frodo, il rito delle scarpe nascoste nel bosco, l’andirivieni affannoso dal campeggio alla periferia della città), in un’iteratività che prende alla gola proprio perché priva di vie d’uscita finanche nella direzione del tragico. Perfino il tentato suicidio di Rosetta va a vuoto perché finisce la bombola del gas. Neanche la tragedia può sbloccare la ferocia di una consuetudine senza sbocchi e senza varchi. Perché Rosetta, appunto, non drammatizza la vita. Si limita a darci un ritratto, un’icona, uno schizzo. È una messa in forma dell’infelicità. Una fotografia della "pena di vivere così". Non piange mai, Rosetta. Azzanna la vita e ci sguazza dentro nel disperato tentativo di non andare a fondo. Quando piange (con un primo piano da brivido sul volto dell’attrice Emilie Dequenne), finisce bruscamente il film. Estetica del rigore, etica del pudore: era dai tempi della Mouchette di Bresson che non si vedeva sugli schermi un personaggio così. Palma d’oro, meritata, al Festival di Cannes. "(Gianni Canova)
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta