Regia di Alberto Lattuada vedi scheda film
Dal romanzo di d’Annunzio, con un titolo modificato in modo da anticipare il finale. Nella Roma di fine ’800 un modesto archivista conosce casualmente un libertino che diventa la sua anima nera: lo convince a lasciare la stanzetta immobiliata in cui abita per trasferirsi in una pensione equivoca, gli estorce a poco a poco tutti i risparmi, poi sparisce per evitare un arresto per truffa. Inebriato dalla libertà riconquistata, il poveretto si mette in testa di sposare l’ambita figlia della proprietaria della pensione, che però sogna la bella vita. Fabrizi interpreta un personaggio dimesso e monocorde, irritante nella sua remissività, patetico dall’inizio alla fine e consapevole di esserlo (come rivela la sua voce narrante), che accetta ogni umiliazione pur di conservare il simulacro di famiglia che si è costruito e reagisce per la prima e unica volta solo quando anche quell’apparenza viene minacciata: un uomo simbolicamente segnato dalla cicatrice che porta in fronte (opera del suo rivale, che lo aveva ferito accidentalmente), inabile alla lotta per la vita, che alla fine si rifugia presso la famiglia che lo ospitava come se rientrasse nel grembo materno; ed è probabile che suo figlio, peraltro di incerta paternità, ne abbia ereditato l’inettitudine. Bella la ricostruzione dell’ambiente impiegatizio e del suo sottobosco, che nella filmografia di Lattuada anticipa quella de Il cappotto.
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