Regia di Alessandro Piva vedi scheda film
Alessandro Piva confeziona il suo primo lungometraggio muovendosi nella terra che meglio conosce, la Puglia, ma non per questo realizza un film sulla Puglia, su "qualcosa" di pugliese, bensì partendo da uno spunto che ormai dal 1991 fa balzare questa regione ai tristi onori della cronaca – lo sbarco clandestino degli Albanesi – orchestra un film che nemmeno narra il resoconto di uno sbarco, bensì una sorta di "thriller comico" su un pacchetto di droga proveniente dall’Albania che viene accidentalmente perso.
Girato a Bari in dialetto stretto (unico aspetto che restituisce "colore locale", dato che per il resto la macchina da presa di Piva evita saggiamento di inquadrare luoghi noti della città pugliese), il film è stato la sorpresa italiana dell’ultimo Festival di Berlino dove ha ricevuto, meritatamente, critiche lusinghiere a riprova che il cinema italiano può tranquillamente riuscire a trovare un suo spazio vitale anche nel mercato internazionale e per giunta con un piccolo film, opera prima, prodotto a bassissimo costo, ma infinitamente vitale nella caratterizzazione dei personaggi, tutti un po’ truffaldini, e tutti un po’ simpatici e antipatici, proprio come accade nella realtà. Piva insomma dipinge il mondo della criminalità, una criminalità locale e non certo iper-organizzata, forse un po’ memore della ancora più scalcinata banda del buco dei Soliti ignoti di Monicelli, con sincera partecipazione ai problemi verso cui vanno incontro i malcapitati avventori di questo film corale.
La regia di Piva si muove senza sobbalzi, ma anche scegliendo una linea narrativa non perfettamente cronologica, alternando così scene notturne e scene diurne che non hanno continuità cronologica. Smonta dunque i modi di narrare tradizionali, ma non insiste eccesivamente su questo aspetto, evitando tra l’altro di cadere in certi intellettualismi che probabilmente avrebbero guastato la genuinità di questo breve film (dura circa 70 minuti).
Gli attori, tutti sconosciuti (anche se alcuni di loro sono apparsi in altri film), sono un’altra delle forze di questo film il quale, come già accadeva per molti dei titoli neorealistici del nostro passato, sarebbe inimmaginabile senza questi interpreti veri, facce di cuoio conciate, visi di pietra scolpiti e volti di cera grottescamente modellati. Una gamma di attori che il cinema italiano dovrebbe tenere ben presenti.
Alessandro Piva fa centro col suo primo film, e maggior merito gli spetta avendo scelto di usare il dialetto, una procedura normalmente anticommerciale (unica eccezione il romano e il toscano, ma solo se servono a strappare qualche risata) come lo è anche in questo caso, ma che allo stesso tempo è una interessante scelta di realismo al servizio di una ironia sottile e non slabbrata, certamente per pochi, per quei pochi che hanno riconosciuto in Piva un nuovo ed interessante regista che speriamo confermi in seguito le capacità dimostrate ne LaCapaGira.
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