Regia di Alex Garland vedi scheda film
La Genesi rivisitata in chiave horror, tra Jane Austen e David Cronenberg
Uomini che odiano le donne. Che le mortificano, che le compatiscono, che le adulano, che le trasformano in madri, che le violentano o vorrebbero violentarle. Uomini. Tutti gli uomini.
Men di Alex Garland – già regista degli ottimi Ex Machina (2015) e Annientamento (2018) – non è un film per tutti, ma dovrebbe esserlo. Non è un film per tutti perché è a tratti intollerabilmente disturbante, ma dovrebbe esserlo perché tutti – in particolare gli uomini - dovrebbero avere l’opportunità di ragionarci su. Ultimamente, infatti, sono proprio gli horror ad affrontare nel modo più proficuo le tematiche di genere – basti dare un’occhiata a film come The Witch (2015), The Neon Demon (2016), Thelma (2017), Suspiria (2018), Midsommar (2019), Gretel e Hansel (2020), Titane (2021) – spesso riappropriandosi in chiave femminista della figura della strega, che da storica antagonista nei film gotici del passato diventa adesso eroina indiscussa e terribile. Con tutte le ragioni dalla sua.
La protagonista di Men non è una strega, bensì una donna dal passato traumatico che ha deciso di trasferirsi per un po’ di tempo in un cottage sperduto nella magnifica campagna inglese, vicina al solito villaggio apparentemente tranquillo. Inutile dire che i suoi abitanti si riveleranno tutt’altro che ospitali. La trama sembrerebbe piuttosto banale, si sviluppa invece ricca di sorprese. Visive soprattutto: a cominciare dall’arrivo della protagonista nei luoghi dove trascorrerà la vacanza, descritti come una sorta di verde Giardino dell’Eden, rigoglioso e carico di frutti. E l’orrore inizierà proprio dopo aver colto dall’albero una mela proibita. Poi un tunnel abbandonato, utile da utilizzare come cassa di risonanza per creare echi a ripetizione (sono molte le cose destinate a ripetersi all’interno del film). Poi un uomo nudo, visto da lontano nel verde di quel giardino che somiglia via via sempre meno a un luogo paradisiaco. Il giardino, la mela, l’uomo nudo. La Genesi trasfigurata in chiave orrorifica, in cui Adamo è il cattivo. Una barzelletta? Potrebbe sembrare, ma il regista fa maledettamente sul serio. E fa paura.
Inquieta l’ambientazione vittoriana con tanto di protagonista abbigliata quasi fosse in un romanzo di Jane Austen: accadeva lo stesso nel finale di 28 giorni dopo (2001) – regia di Danny Boyle ma sceneggiato da Garland – in cui, nonostante l’ambientazione zombie, erano gli uomini i veri cattivi della storia, predatori delle eroine femminili trasformate in bambole da catturare e violentare. Men sembra quasi essere una dilatazione parossistica di quel finale (la protagonista però questa volta ha un’ascia e la usa), portato qui alle sue estreme, visionarie conseguenze. Fa paura la violenza di un braccio che si alza. Fa paura la mano appoggiata sulla coscia da un prete che sussurra: 'Lei ha bisogno di essere compresa e io la comprendo'. Fa paura la volontaria indolenza della polizia. Fa paura persino un bambino che pretende ad ogni costo di giocare a nascondino (perché anche i dopobarba in tv, dopotutto, insegnano che gli uomini non devono chiedere mai). Fa paura quando notiamo su ogni volto lo stesso volto. Ancora di più quando ci rendiamo conto che quello che stiamo vedendo ci appartiene, da secoli.
Gli uomini, sembra volerci dire il regista, devono aprire gli occhi e prendere consapevolezza di vivere in un mondo modellato da sempre a loro immagine e somiglianza, in cui contano soltanto i loro desideri, le loro volontà, il loro immaginario. Un mondo in cui le donne sono costrette a recitare il ruolo di comprimarie: vittime, prede, oggetti del desiderio, amanti, mogli, madri. L’importante è che siano comprensive, disponibili, sempre pronte al dialogo, all’attenzione, alla cura. Madri, dunque. Più che altro madri. Non è un caso che il film si chiuda (spoiler!) con un parto. O meglio, con un ciclo di parti terrificanti. E con una donna incinta, icona finale che apre alla speranza. O alla dannazione eterna.
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