Regia di Alex Garland vedi scheda film
Adamo mosso dalle parole tentatrici di Eva, raccolse il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male, nonostante l’esplicita proibizione di Dio, che invece nel resto del giardino dell’Eden, aveva concesso alle sue due creazioni predilette libertà assoluta; la rottura del rapporto fiduciario con il creatore sarà scontata amaramente da entrambi i sessi, ma sarà la donna quella su cui verrà gettato lo stigma perpetuo da parte dell’uomo, in quanto lasciata ingannare dapprima dal serpente e successivamente indurre nel peccato il maschio.
La logica patriarcale della società umana, ha quindi radici primordiali, le cui ramificazioni si sono propagate attraverso ogni luogo e tempo, condannando la donna ad un ruolo subordinato, scontando questo suo peccato originale, vedendosi estromessa da qualsiasi ruolo decisorio oltre ad essere accusata di ogni problema occorso al maschio sin dall'alba dei tempi; Harper (Jessie Buckley) come primo atto nel prendere possesso della sua nuova casa in campagna, coglie un frutto da un albero mangiandolo, un didascalismo visivo abusato, che sancisce nuovamente il circolo di dannazione a cui viene condannato l’essere femminile, rinnovando questo “patto” senza fine, come il trauma subito per la morte del defunto marito James (Paapa Essiedu), con cui la protagonista voleva separarsi, nonostante le resistenze del coniuge, che minacciava di uccidersi se fosse andato in porto la separazione, proposito messo poi in atto, buttandosi da una finestra.
Dai flashback in cui predominano le tonalità rosse ed arancioni sature, espressioni di una passione ormai svanita in quanto divenuta dolore, si passa nel presente al verde intenso della luminosa e vasta dimora di campagna, nella quale Harper cerca quella pace, che a Londra le era ormai negata.
La tranquillità amena del luogo è solo apparente, la donna è solo passata da un agglomerato soffocante urbano ad un inferno verde, in cui la vastità immensa del luogo dal punto di vista spaziale, in realtà prefigura una nuova prigione in chiave metafisica, precludendo qualsiasi libertà derivante sia dalla casa grande sia dalle grandi distese dei boschi. Lo spaesamento reso in modo intimamente doloroso ed ossessivamente presente dall’eccellente prova attoriale dell’attrice Berckley - un nome che farà strada se il cinema la vuole sfruttare bene -, è un conflitto prettamente immanente, un urlo sordo all’altro, udibile solo da lei stessa, come un eco che rimbomba in direzione univoca senza bidirezionalità, perché il tunnel buio in cui è immersa la mente di Harper, ha un’entrata ma non un’uscita, pur conducendo ad una luce opposta visibile, ma risulta impossibile afferrarla, perché la subordinazione al maschio è un tabù inciso a fondo nella sua psiche.
Alex Garland con Men (2022), costruisce una narrazione subordinata ad una riconoscibile grande metafora sulla mascolinità tossica nei confronti della componente femminile, che subordina a tale lettura ogni elemento del film, arrivando a sovrastarlo per poi divorarlo, in una lettura univoca dove viene negata ogni altra lettura stratificata dei singoli elementi posti in scena.
Harper si ritrova a che fare con una realtà maschile uguale a sé stessa, letteralmente essendo tutte incarnazioni in negativo del maschio - interpretate dal medesimo attore Rory Kinnear) -; il padrone di casa dal fare strano sempre alla ricerca di un qualcosa in cambio, un matto nudo che ti perseguita ossessivamente, l’adolescente misogino pronto a vomitare insulti, passando per il prete che ti accusa di essere responsabile della morte dell’ex marito dando la colpa dei mali del mondo al corpo e alla parola femminile ed infine il poliziotto che in quanto rappresentante della legge, non prende sul serio la richiesta d’aiuto della donna, perché alla fine si sa, sono un pò isteriche e troppo propense nell’andare in apprensione per un nonnulla.
C’è quindi una grande discrasia tra un Garland capace di incutere orrore anche solo tramite l’ausilio della splendida location, - tanto bella quanto misteriosa, onirica e labirintica nel suo svilupparsi -, senza fare uso alcuno di jump-scare ed il qualunquismo di un contenuto narrativo, che sembra uscito da una conversazione al bar tra donne un pò deluse ed un pò annoiate, le quali affermano che in fondo gli uomini sono tutti uguali e vogliono solo la “figa”, portando così il film a divenire esteticamente meno interessante nella seconda parte, dove il messaggio deve essere reiterato ossessivamente, arrivando ad allungare di molto i tempi dell’inquadratura, disperdendo la tensione, la suspense ed il senso di disgusto in questo circolo infinito, che replica in modo uguale sé stesso, nonostante le fusioni e le scissioni da cui si genera nuova carne identica nell’ideologia dominante, sullo stile di Society di Brian Yuzna (1989), il quale però ci deliziava di effetti speciali fisici, che la CGI qui usata - seppur buona -, conduce ad esiti troppo da “evelated” horror cerebrale, che fiaccano l’aspetto viscerale proprio del genere.
Il regista dalla molteplicità (Men), passa all’unico (Harper), ma questo punto di vista ridotto, finisce a poco a poco per individualizzare un male sociale in una specifica situazione che si vuole portare come universale, con esiti disonesti dal punto di vista intellettuale; perché il dolore di Harper non lo si vuole negare, ogni donna ha dei limiti personali di sopportazione nei confronti dell’altro sesso, ma allora la vicenda della protagonista per assurgere a totem dell’intera condizione femminile universale, avrebbe richiesto uno sguardo meno intimo o quanto meno una gestione dei vari simboli più accorta e limitata, senza andare per un accumulo forsennato dagli intenti “totalizzanti” di elementi pagani, cristiani e financo ancestrali, che risultano visivamente intriganti a vedersi, ma alquanto impacciati nei significanti, finendo tra l’altro con il risultare incoerenti con la messa in scena, perché ad esempio figure come il fauno morto o l’uomo nudo che si pianta le foglie in viso, essendo fuori dal punto di vista della protagonista in quel momento, non fanno capire filmicamente dove vi sia la componente reale e quando cominci effettivamente lo spaesamento mentale della donna.
Men è il film più simbolico tra i film del regista, ma lungi dall’essere ostico da capire come detto da qualcuno, risulta essere il più diretto e comprensibile, in quanto urlato in faccia nel suo significato; eppure nonostante tutte queste banalità, Garland si conferma un regista interessante nel suo essere incompiuto, su tutto, il finale beffardo di un’irriverenza sopraffina fatalista tutta da godere, peccato che quella scintilla di genialità analitica, nell’arco del film si sia vista per nulla.
Analisi originariamente pubblicata su Quart4 Parete: https://www.4pareteita.it/2022/09/03/the-men-gli-uomini-sono-tutti-uguali/
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