Regia di Sofia Coppola vedi scheda film
Non sono pochi quei film che attraverso la denuncia del fanatismo religioso cristiano, tipico della comunità puritano-protestante americana, tendono a distruggere l’impalcatura di menzogne non solo della struttura religiosa, ma anche di tutta l’istituzionalità dei poteri forti. La famiglia, la religione, quindi in ultimo il Paese, sono il bersaglio preferito da quegli autori che vogliono vivisezionare senza anestesia il corpo americano, sperando in un’utopica inversione di tendenza. Questa, se mai arrivasse, sarebbe una patente wrong turn tale da riportare in breve tutto allo stasus precedente. Pena, la fine dell’americanicità.
Sofia Coppola è semplicemente perfetta ad orchestrare i vari elementi che formano la poetica e l’estetica del film. La dimensione onirica, leggiadra e bucolica, i colori pastello e il candore delle luci ci restituiscono visivamente una favola per adulti, con giovani principesse WASP della middle class borghese americana desiderose di volare, di emanciparsi e che sognano principi azzurri più o meno corretti, ma poco importa. Ciò che importa è evadere dall’asfissia dell’ipocrisia per essere vere. E in soccorso a questo dramma arriva uno stuolo di giovani attori capaci di incarnare la sofferenza e la voglia di emancipazione così come lo sconcerto e la curiosità morbosa verso un mondo negato. Da Kirsten Dunst, bellissima e sofferente come una dea greca, fino a Josh Hartnett, nel ruolo di Trip Fontaine, dongiovanni ma non troppo, problematico, fintamente sicuro della sua bellezza, un castello di carta pronto a bruciare, passando per Johnathan Tucker e gli altri ragazzini affascinati dalle sorelle Lisbon, attratti e spaventati dalla morte, quando questa si manifesta, ma tenaci ad aiutare le loro giovani amiche nella lunga e difficile rincorsa verso l’emancipazione. Completano il dramatis personae Kathleen Turner, in un ugualmente inquietante risvolto da serial mom, e James Woods, come genitori ipocriti e borghesi seduti sulla propria ignoranza che causerà il suicidio di massa delle loro belle figliole. Nemmeno l’aiuto della medicina, Danny DeVito, e della tanto difesa religione, Scott Glenn nei pani del remissivo Padre Moody, serviranno a qualcosa.
La storia è raccontata da un adulto Trip Fontaine, interpretato da Michael Paré, ormai corrotto dal tempo e dalla terribile esperienza, che si fa portavoce collettivo di tutti i ragazzi e di tutte le sorelle che ne avevano istigato l’attrazione adolescenziale. A conferma della fragilità del personaggio di Trip e della sua insospettata centralità nell’economia della storia, il ruolo di narratore ultimo e finale diventa un punto di vista nuovo che non crea sospetti di soggettività, ma rappresenta il dolore condiviso e plurale degli adolescenti, spesso carnefici, ma molto spesso vittime del mondo degli adulti conformati.
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