Regia di Domee Shi vedi scheda film
Più passa il tempo, più mi rendo conto che le certezze (quelle inconfutabilmente tali, se ciò può valere qualcosa) si contano sulle dita di una mano. Fra queste, per quel che riguarda me medesimo, c’è la Pixar.
Oggi, fagocitati dalla tossicità di un momento storico tanto infame da non aver risparmiato nemmeno la stessa Pixar – imbrogliata nell’amara presa di posizione disneyana relativa alla distribuzione in streaming –, si discute sull’effettiva autenticità di quest’ultima, su un possibile smarrimento creativo e produttivo, spingendosi persino verso una forzata rivalutazione di quanto è inerente al percorso della stessa, puntando quindi i riflettori sul passato e osservando il presente in relazione ad esso.
Io penso che Turning Red, attraverso la consueta tecnica sopraffina e una lucidità straordinaria mirante al frangimento di scomodi tabù, ci parli precisamente di questo: non è solo un manifesto femminile di quel passaggio puberale traumatico – non una metafora velata quanto un vero e proprio discorso incentrato su mestruazioni, sviluppi incontrovertibili e impulsi irrefrenabili –, o un sognante invito ad essere sé stessi (sempre e comunque) pur tenendo conto delle prospettive di coloro che ci accompagnano lungo il cammino, ma anche un’arguta riflessione da parte di Pixar sul proprio statuto e su quello del pubblico che ne ha favorito i successi. Sin dagli albori degli Animation Studios, dall’era Lasseter ai giorni nostri con la direzione creativa di Pete Docter, focus delle produzioni è sempre stata la crescita, vincolata in qualche modo ad una dimensione psicanalita di conflitto e/o perdita con conseguente catarsi emotiva: Woody in Toy Story comprende il significato di amicizia e di lealtà mediante la competizione con Buzz Lightyear, la contesa padre-figlio in Finding Nemo si traduce in un viaggio alla ricerca dell’equilibrio fra il timore e la curiosità per l’ignoto, Rémy in Ratatouille giunge al compimento del sogno soltanto attraverso un processo di autocoscienza e di rielaborazione del costrutto di familiarità, e così via. Turning Red si presenta pacatamente, in apparenza quasi dislocato dalla maturità dei contenuti di un Coco o di un Soul che, al contrario, affiora con vigore incontenibile, comunicando tanto al cuore quanto alla ragione e alle esperienze di ognuno, indipendentemente dall’eventuale target di riferimento (da che mondo è mondo, adulti e bambini ne traggono qualcosa di esclusivo).
Ad interessare in questo caso è un vivido rapporto materno, trasposto da Domee Shi (autrice del toccante Bao, cortometraggio che le è valso l’Oscar) ispirandosi al personale vissuto: Mei, in quanto figlia unica, ne è il riflesso, in bilico fra le passioni adolescenziali e la fedeltà inscindibile ai genitori, soggetta agli sbalzi emotivi che la trasfomano in un panda rosso. Rappresentando quella fase di anarchia improntata alla ricerca di un posto e un’identità utopica, Turning Red suggerisce come ciascuno possa trasformarsi nel villain della propria esistenza, attraverso una spontanea caparbietà, l’ostinato (ma magari involontario) vizio di guardare al prossimo con un senso di superiorità che non ci appartiene, il tentativo esasperatamente claustrofobico – per quanto amorevole – di porre dei limiti e rinchiudersi sotto una vacua campana di vetro.
Forse, quello che ad oggi è già considerato il più grave tonfo di Pixar è invece uno stimolo, non tanto a mutare repentinamente lo sguardo similmente a mamma Ming Lee, piuttosto a tenerne conto dell’inevitabile maturazione nel corso del tempo. Si cresce, e si cambia: una realtà lapalissiana da cui è impossibile sottrarsi.
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