Regia di Leigh Janiak vedi scheda film
“Se una strega è quel che vogliono una strega avranno.”
“Fear Street - Part Three: 1666”, l’ultimo capitolo della trilogia diretta da Leigh Janiak (e a lei e a Phil Graziadei in fase di sceneggiatura questa volta si affianca Kate Trefry, proveniente dalla squadra che ha showrunnerizzato le tre stagioni di “Stranger Things”) a produzione Fox/Chernin e distribuzione Netflix è suddiviso in maniera specularmente bipartita, composto com’è da due ritorni combacianti, uno al passato e uno al presente: la prima parte, un “the Witch” (o un “Hagazussa”, o un “Akelarre”) per teenager, funge (con le caratterizzazioni melaninico-razziali contestualizzate in maniera perfettamente coerente), ed è perfettamente in linea con gli altri due period-horror, reggendo il confronto col migliore dei tre, cioè quello di mezzo/“raccordo” (ed anzi per certi versi “a sé stante”, pur con la sua fisiologica “incompiutezza”), ambientato quasi interamente, tranne prologo ed epilogo, nel 1978, mentre la seconda, che deve tirare le fila e le somme nel 1994, nel farlo - perché lo fa, con una propria coerenza interna contestualizzata al genere e all’operazione/prodotto -, giunti quasi alla quinta ora di narrazione, sbraca un po’: l’organizzazione della battaglia finale, paradossalmente, è in stile col cinema del decennio che Fear Street ha, vistasi occupata per intero la nicchia ecologica relativa dalla summenzionata “Stranger Things”, fino ad allora, saltato a piè pari: i fatidici anni ‘80: un “the Goonies” per grandicelli al contrario con l’aggiunta di “A-Team” e “MacGyver”.
Potere, Prosperità, Futuro.
Se nel 1° cap. la differenza fra Sunnyvale e Shadyside ci veniva presentata con una brevissima sequenza di vari camera car laterali tanto sul quartiere privilegiato sul quale splende sempre il sole quanto su quello proletario “in ombra”, un minuscolo momento à la “(Streets of) Philadelphia” (prologo del film di Demme e videoclip del brano di Springsteen girato dal regista col nipote Ted), in questo 3° capitolo (o 1°-bis) l’accenno è ancora - per fortuna, pur facendo pienamente parte della strategia di comunicazione col proprio pubblico (14-20 anni) adottata dalla saga, ovvero il didascalismo spinto - più minuscolo e sintetico: ma è un’evidenzazione/sottolineatura non solo perdonabile, ma pure “necessaria” (nel senso, ad esempio, ricoperto dalla parola “FINE” alla fine di un romanzo od un film).
L’unico ruolo rimarchevole fra quelli aggiunti/“nuovi” è quello della vera/reale Sarah Fier, interpretata da Elizabeth Scopel, semi-esordiente, la cui prestazione rimane senza giudizio oggettivo per la brevità della stessa, ma, soggettivamente, la faccia non si dimentica.
Fotografia e montaggio sono sempre opera di Caleb Heymann e Rachel Goodlett Katz, mentre per la composizione della colonna sonora originale a Marco Beltrami per quest’occasione torna ad affiancarsi, dal primo capitolo, Marcus Trumpp, con l’aggiunta di Anna Drubich.
E per quanto riguarda la colonna sonora non originale, coi brani preesistenti messi lì a scandire l’epoca, se se la cava bene con la reprise di fine ‘80 e inizio ‘90 (the Offspring, Oasis e una doppietta per i Pixies sul finale), devo dire però che pecca un po’ con la prima metà di questo “episodio” finale: possibile che non ci fossero dei bei pezzi rock (o evil dead metal) del 1666 da mettere sul piatto?!
Seriamente, sull’utilizzo della facile pratica delle “Period Song” ha già detto tutto quel che c’era da dire a suo tempo "BoJack HorseMan"…
“Struggente”, a suo modo, l’accenno finale (fatto da @QueenOfAirAndDarkness in persona, out of pre-social network) al Solid State Drive (e l’i-Pod è dietro l’angolo… del secolo & millennio).
Abbastanza stupidotta, invece - ma va bene così, eh -, la scena inframmezzata ai titoli di coda.
“Se una strega è quel che vogliono una strega avranno.”
- Fear Street 1994: * * * ¼
- Fear Street 1978: * * * ¼ (½)
- Fear Street 1666: * * * ¼ [prima metà: * * * ¼ (½); seconda metà: * * *]
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