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Il signore delle formiche

Regia di Gianni Amelio vedi scheda film

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La recensione su Il signore delle formiche

di barabbovich
5 stelle

Nel 1968 il mirmecologo, saggista, poeta e autore di teatro d'avanguardia Aldo Braibanti (Lo Cascio) venne processato e in seguito condannato a nove anni di carcere (ma ne scontò soltanto due per meriti come partigiano) per avere plagiato Ettore (Maltese), un ragazzo di buona e cattolicissima famiglia emiliana. Ennio Scribani (Germano), un giornalista dell'Unità, cerca di capire a fondo il caso, nonostante l'ottusità e il disinteresse di un partito - il PCI - di cui lo stesso Braibanti era stato dirigente. Nel frattempo, Ettore viene curato prima a suon di visite da Padre Pio e poi con l'elettroshock, a dimostrazione dell'ampiezza di vedute di una società sessuofoba, ipocrita e parruccona che, pur non di non punire il reato d'omosessualità, lo fa con quello di plagio. Che, peraltro, fu introdotto dal fascismo ("gli omosessuali non si potevano mandare al confino - sentenzia Scribani in una delle pagine migliori dello script - perché in Italia i froci non c'erano: i maschi italiani dovevano essere tutti virili") e poi cancellato dal Codice penale grazie ai radicali, la cui presenza viene surrettiziamente mostrata con il brevissimo cameo del volto di Emma Bonino, che peraltro a quelle lotte civili non prese parte…
Pur avendo tolto un grosso strato di polvere a una storia che meritava di essere portata sul grande schermo (sebbene ci avessero già pensato, in forma di documentario, Carmen Giardina e Massimiliano Palmese), ci si domanda quanto abbia inciso sulla produzione del film la scena in cui, in pieno giorno, il giornalista insegue la madre del protagonista sul ponte Umberto I, quello che - a Roma - congiunge piazza Navona col Palazzaccio, con tutte macchina d'epoca in circolazione. Già, perché solo così si può spiegare il reclutamento a risparmio di cachet di una serie di attori alla prima esperienza che recitano in maniera tanto esangue da imbalsamare il film, togliendo ad esso ogni palpito che non sia quello della prova maiuscola di Lo Cascio e Germano. Dopo Hammamet, Amelio realizza ancora una volta un film biografico con elementi squilibratissimi non solo nelle prove attoriali, ma anche nello scarto tra la cura nella ricostruzione d'epoca e la teatralità del copione. Ed è un peccato, perché un tema al quale il regista calabrese sembra tenere così tanto - se ne parlava anche in Felice chi è diverso - finisce per non appassionare, suscitando una flebile compassione verso un protagonista raggelato in una messa in scena inamidata, che trova nella testimonianza del giovane Ettore uno dei pochi momenti di poesia di un film eccessivamente scritto, nel quale l'espediente narrativo dell'andirivieni temporale fa solo l'effetto della foglia di fico su un'opera fragile.

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