Regia di Fabio Resinaro vedi scheda film
Alla fine il prezioso meccanismo s’è rotto, irreparabilmente: impossibilitato non solo a ricaricare ma anche ad aggiustare sé stesso, l’uomo-Pierluigi Torregiani cad(d)e a terra.
Morto.
Non è spoiler. È storia, fredda cronaca, vivida memoria.
1979, Milano.
La sequenza del vile, brutalissimo agguato per mano dei Proletari Armati per il Comunismo – ottimamente girata, spietata nella lucida ricostruzione, tragiche conseguenze comprese – è l’istantanea puntuale di un Paese attraversato da una tumultuosa fase di grandi cambiamenti, fratture sociali insanabili, atti riottosi, moti terroristici.
Il gioielliere ossessionato dal tempo, dalle coordinate irrinunciabili del “quando”, circondato da quei piccoli capolavori di ingegneria meccanica noti come orologi – dal dolce, rassicurante nonché ineluttabile prodursi di rumori regolari di molle, ingranaggi e complicazioni – non era persona facile né accondiscendente, per nulla.
Nel monologo iniziale con il funzionario di banca, e nei seguenti, tra cui la performance esemplare in negozio mentre cerca di convincere (riuscendoci) una signora anziana ad acquistare un segnatempo a carica manuale anziché uno innovativo al quarzo (con piena ragione), vige tutta la personalità di Torregiani.
Scontroso, duro, presuntuoso, prevaricatore, tradizionalista, borghese, milanese; e affabile, generoso, lungimirante, abilissimo nel suo lavoro e nel vendersi (le sue televendite avevano notevole riscontro): questo e molto altro era uno delle vittime-simbolo di quella nefasta epoca.
Ero in guerra e non lo sapevo, tratto dal libro autobiografico di Alberto Torregiani (il figlio che rimase paralizzato in seguito all’attentato) e Stefano Rabozzi, ripercorre i giorni terribili che seguirono a un primo scontro con i terroristi in un ristorante fino al tragico, noto epilogo.
Nell’impaginare una discesa infernale negli abissi che il gioielliere faticava a comprendere, finanche a concepire, imperterrito il medesimo nel suo incedere con cronometrata baldanza e a guardare con diffidenza e giudicare chi protestava perché "senza orologio al polso", il film scansa prudentemente trappole ideologiche e strumentali concentrandosi sostanzialmente, forse pure troppo, sulla descrizione dell’uomo.
Il ritratto – tutt’altro che agiografico – è sfaccettato, logico, credibile, incassato nel difficile ménage familiare (la moglie incuriosita dalle istanze moderniste, i figli adottati da orfani) e nella sfera professionale che governa con la sicurezza delle lancette che scandiscono il tempo.
Narrazione che trova modo, invero con qualche difficoltà e prevedibili semplificazioni, di evidenziare il rapporto teso e complesso sia con le impotenti autorità che con la stampa votata al sensazionalismo più becero e deleterio.
L’opera, diretta e co-sceneggiata dal Fabio Resinaro di Mine e Dolceroma, riesce altresì a inquadrare bene il clima e l’atmosfera dell’epoca, sfiorando solo però quella tensione – nell’ambito intimo e in quello sociale – che ne avrebbe elevato portata drammaturgica e forza delle immagini; insomma, lo sguardo rimane un po’ troppo controllato, quasi timoroso, dando quella sensazione impersonale di taglio televisivo.
Su tutto, e su tutti, domina la caratterizzazione forte di Francesco Montanari: a tratti eccede, deborda, ma se lo può permettere, mentre restano ai margini gli altri, a partire da una Laura Chiatti di mero corredo (ma forse è meglio così).
Inevitabili immagini e didascalie finali sul destino di Pierluigi Torregiani e delle figure annesse (Cesare Battisti).
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