Pupi Avati traduce sullo schermo ciò che, da appassionato conoscitore del Medioevo, ci ha raccontato nel suo romanzo Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante, in cui immagina che all'autore del Decameron venga assegnato compito, da parte della potestà fiorentina, di raggiungere la figlia del peta deceduto, ovvero Beatrice, chiusa in un convento, per risarcirla come richiesta di perdono tardivo nei confronti del sommo padre di costei.
Nel viaggio il Boccaccio (interpretato con partecipazione da un ispirato Sergio Castellitto), riesce ad incontrare alcuni degli ultimi testimoni che videro in vita il sommo poeta, ed attraverso i loro racconti, allo spettatore è consentito di vedere coi propri occhi alcune drammatiche fasi della gioventù di Dante, degli sforzi per emergere, e del dolore che travolse la sua esistenza a tal punto da ispirarlo nella composizione delle sue opere più note.
Il volto trasognato di Boccaccio/Castellitto che ammette senza reticenze la circostanza che l'opera del suo maestro si traduce "nell'unica vera gioia della mia vita", fa si che nel rapporto a distanza, ma in realtà assai ravvicinato, tra i due autori, si instaura un inedito legame similare a quello tra un padre ed un figlio.
Un circostanza che permette al discepolo di far maturare nella ormai anziana figlia Beatrice (la interpreta con delicatezza una ritrovata e bravissima Valeria D'Obici), quel sentimento di riconoscenza finale che le consente, del tutto inaspettatamente rispetto ai propositi comunicati alle suore del convento, di accogliere alla fine l'appassionato viandante giunto da Firenze per comunicarle l'importante messaggio chiarificatore.
Ecco la scena finale, così raccolta e intima fino all'apparire di luccichii e brilluccichii che ricordano le lucciole, e di conseguenza le stelle, è certamente il momento più ispirato di un film che appare da subito una scommessa inavvicinabile, ed un progetto perso in partenza.
Nonostante il valido apporto di Castellitto e della D'Obici già menzionati, di Alessandro Sperduti dal naso adunco che interpreta il poeta in età giovanile e di Enrico Lo Verso nel ruolo del garbato accompagnatore Donato, nonostante la meticolosa ricostruzione storica e linguistica che si traduce in dialoghi piuttosto realistici, il film ha momenti di stasi in cui semplici azioni e circostanze narrate denotano una certa stanchezza stilistica o una certa piattezza di costruzione che in genere è sempre stata lontana dal cinema di Avati.
Certo per fortuna del film rimane alla memoria soprattutto lo sguardo intenso di un giovane tormentato che trae dai dispiaceri e dalla sofferenza, dalle crudeli privazioni di una vita che, proprio perché dura ed ingrata, ha saputo ispirarlo fino a renderlo il sommo poeta, la sua più naturale purezza espressiva.
In questo senso, e per l'impegno profuso dall'anziano ma assai determinato Pupi Avati a concludere un progetto così ambizioso, se non proprio titanico, il film merita il più sincero rispetto, e la scena della riconciliazione finale, così intima e raccolta, riesce a far tralasciare una certa sciattezza in cui il film inciampa ripetutamente, attraverso personaggi di contorno decisamente fuori luogo o poco consoni alla situazione e al contesto storico così appropriatamente ricostruito.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook, ma c'è un nick con lo stesso indirizzo email: abbiamo mandato un memo con i dati per fare login. Puoi collegare il tuo nick FilmTv.it col profilo Facebook dalla tua home page personale.
Non ci sono nick associati al tuo profilo Facebook? Vuoi registrarti ora? Ci vorranno pochi istanti. Ok
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta