Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Nella città di Belfast, capitale dell’Irlanda del Nord, il regista, sceneggiatore e produttore Kenneth Branagh ci è nato (il 10 dicembre 1960) e il suo diciottesimo lungometraggio è inequivocabilmente la sua lettera d’amore alla città (ma anche alla famiglia) che non solo gli ha dato i natali ma che l’ha formato e dal quale è dovuto scappare via senza mai più voltarsi indietro. Ma senza mai dimenticarla.
Evidente quindi il tono autobiografico di una pellicola che è la sua opera più personale e sentita, uno splendido “memoir” e un accorato omaggio alle sue origini e che lascia intuire quanto il regista tenesse a raccontare la propria infanzia e l’amore per la sua famiglia e per la gente d’Irlanda che vive (viveva?) nell’Ulster, un mondo, anche oscuro e drammatico, raccontato però attraverso gli occhi (ingenui?) e i ricordi (semplificati?) di un bambino.
Il film si apre infatti con quello che verrà ricordata come i “troubles”, l’inizio del conflitto trentennale tra la maggioranza protestante (gli Unionisti, fedeli alla Corona britannica) e i cattolici, numericamente in minoranza, che avvertivano invece l’adesione dell’Ulster al Regno Unito come una dominazione e sognavano al contrario il ricongiungimento con la Repubblica d’Irlanda.
Ma Belfast è anche un personale omaggio al cinema dal forte impatto visivo che colora di sogni una realtà invece drammaticamente in bianco e nero (un po' sul modello di Roma di Alfonso Cuarón) splendidamente fotografata da Harris Zambarloukos (Mamma Mia!), collaboratore di Branagh in molte delle sue pellicole comprese le ultime tratte dai romanzi di Agatha Christie, ed è attraverso lo sguardo di un bambino, con leggerezza e ironia ma anche con una certa serietà, che lo spettatore verrà a contatto non solo con il conflitto tra protestanti e cattolici ma anche con le diseguaglianze tra i due gruppi, la disoccupazione e, quindi, la povertà di una larga parte della popolazione e quindi la massiccia migrazione verso l’Inghilterra e altri paesi, soprattutto del Commonwealth.
Branagh qui è anche sceneggiatore e bisogna anche dargli merito di dialoghi vivaci e diversi momenti poetici capaci di farci entrare come e più delle immagini nella vita di Belfast.
Ma Belfast è anche un film di personaggi e quindi cinematografico ma anche, come spesso avviene nei lavori di Branagh, indissolubilmente teatrale, costruita attorno a due appartamenti, una strada e qualche vicolo e la Storia (con la S maiuscola) che vi entra quasi di soppiatto, dalla radio o dallo schermo televisivo, in un’economia di mezzi e di set a cui il regista contrappone una certa lievità nella regia e la ricchezza e l’umanità dei suoi protagonisti e probabilmente ha assunto una certa importanza che molti che vi hanno lavorato siano, proprio come Branagh, originarie di Belfast come, ad esempio, gli attori Jamie Dornan o Ciaràn Hinds o come lo stesso Van Morrison, autore della colonna sonora tra classici del suo repertorio, un inedito e diverse parti musicali.
Concludono poi il cast il giovanissimo Jude Hill, Ciatrìona Balfe, Judi Dench, Colin Morgan e Lara McDonnell.
“A quelli che sono rimasti, a quelli che se ne sono andati, a quelli che si sono persi.”
VOTO: 7
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