Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film
Sarebbe interessante sapere se la pandemia abbia influenzato Kenneth Branagh e Paolo Sorrentino quando, nel 2020, iniziarono a concepire i rispettivi "Amarcord". La pausa forzata, probabilmente, ha spronato gli scrittori a prendere in mano carta e penna ed il tempo, per una volta meno tiranno, ha permesso di tornare indietro, rivangare il passato e, perché no, tirarne le somme facendo fluire l'inchiostro verso il pennino e, da lí, verso i fogli immacolati. Forse i due registi, accomunati dall'aver ricevuto il David di Donatello per il miglior film italiano e per quello straniero, si sono lasciati andare ai ricordi grazie al tempo ricevuto in regalo. Di sicuro, come dimostrano i premi e gli incassi, critica e pubblico hanno apprezzato l'operazione nostalgica di recupero della giovinezza. Se "la mano di Dio" ha dettato all'apocrifo evangelista napoletano un racconto sull'adolescenza partenopea, la pausa, imposta dalle circostanze, potrebbe aver ispirato al regista irlandese il film più personale della propria carriera, quello che ha interrotto una serie ventennale di opere su commissione realizzate oltre oceano. A differenza di Sorrentino l'autore britannico è andato, però, ai ricordi della propria infanzia sul suolo irlandese. Entrambi i film, "È stata la mano di Dio" e "Belfast", hanno rivolto lo sguardo verso un evento spartiacque che ha influenzato chiaramente le persona dei rispettivi autori: la morte inaspettata e tragica dei genitori per quel che riguarda Sorrentino, l'addio alla città natale per quanto riguarda Branagh. Ma se il maestro napoletano ha trovato nella propria storia il luogo ove cercare la linfa tragicomica che del film si erge a pilastro, l'allievo di Shakespeare ha colto la carica drammatica del racconto dagli eventi irlandesi, filtrando gli aspetti più truci attraverso gli occhi dell'innocenza. Perché se la Napoli, con tutte le sue imperfezioni e complessità, era quella del calcio e dell'elettrizzante follia per il pallone della seconda metà degli anni '80, la Belfast di Branagh era quella violenta ed oscura dei "Troubles" che il regista evoca fin dalle prime immagini ambientate il 15 agosto 1969 data in cui crollò il mondo della famiglia Branagh e di molti irlandesi. Più privato il contesto napoletano, maggiormente intrecciato al tessuto storico-sociale quello in cui si muove il piccolo Buddy, bambino di nove anni che deve rapportarsi ad una realtà destabilizzante e ingestibile anche per gli adulti. I Troubles hanno prodotto, nel tempo, migliaia di morti, l'esodo di molti dall'Ulster e l'instaurarsi di un clima di guerra a bassa intensità durato per decenni, clima che secondo alcune mie fonti, residenti nella città di Davide e Golia, sta per tornare, a seguito della Brexit, per coprire, greve, i cieli e le strade. La storia di Kenneth Branagh, è ben poca cosa, dunque, di fronte alle bombe e alle vite falciate dalla dea bendata lungo i marciapiedi della capitale, ma si incastra a perfezione in un mosaico di volti ed azioni che fotografano l'anno zero della storia del paese.
Benché il film abbia ottenuto Oscar e Golden Globe per la miglior sceneggiatura credo che gli aspetti più interessanti vadano ricercati nella ricostruzione (avvenuta a Londra) dei quartieri e delle barricate e nella riproduzione del fanatismo politico/religioso di cui il piccolo Buddy è inconsapevole testimone come ladro di detersivi e caramelle. Branagh ha saputo ricreare efficacemente lo stato delle cose e dargli vita attraverso il bianco e nero limpido e lucente di Haris Zambarloukos e all'immane lavoro dell'art director Dominic Masters e della responsabile dei costumi Charlotte Walter. Certo qualche volta si eccede nella commemorazione patinata della Belfast del 1969, specie nella scena iniziale quando un'intera città sembra vivere sulla strada una sorta di "Comune" basata sul reciproco scambio e sulla collaborazione idealizzata tra cittadini. L'incantesimo, spezzato dallo scoppio dei "guai", spazza via, però questa magica aurea di perfezione lasciando che il racconto si addentri nella sfera privata seguendo con spensieratezza le pene d'amore del bambino e con maggior apprensione le difficoltà dei genitori costretti a prendere decisioni importanti per proteggere la famiglia dagli orrori della violenza. Qualche perplessità, invece, l'ho avuta sul montaggio della scena in cui Buddy e sua madre vengono iberati da un lancio provetto del padre. Una scena macchinosa e difficile da girare che nemmeno il lavoro di cucito ha saputo rattoppare senza slabbrature. Un peccato perché poteva uscirne una sequenza emozionante se è vero che nel gesto del padre di Buddy vi era tutta l'epica dell'uomo comune che difende la propria famiglia a mani nude senza, perciò, abbracciare il credo violento delle armi. Ottimi gli attori, come sempre vanto del cinema britannico, da una brontolona Judie Dench a Ciaran Hinds che veste i panni del nonno maestro e complice dell'inesperto nipote. Caitriona Balfe, le cui gonne sono un po' troppo corte, forse, per l'Irlanda degli anni 60, emoziona anche al telefono mentre Jamie Dornan, che si esibisce in un superfluo assolo al microfono, non può che migliorare passando dalla trilogia dei colori al b&w e ai caldi ocra della memoria. Mi aspettavo meno invece sono uscito dalla sala nella speranza di visitare un giorno la Belfast del Titanic Quarter e del Dirty Onion, sperando rimanga la cittadina vivace ed indusriosa di oggi, quella che Branagh tinge dell'oro, del rosso e dell'azzurro dell'alba nuova della civile convivenza.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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