Regia di Marco Tullio Giordana vedi scheda film
La memoria della lotta alla mafia viaggia sull’onda di “A Whiter Shade of Pale” dei Procol Harum: e questa scelta musicale spiega l’operazione tentata da Marco Tullio Giordana in “I cento passi”. Una volta tanto, la tipica “excusatio non petita” dei registi italiani (tutti i film sulla mafia non sono, a sentir loro, film sulla mafia) ha senso: il viaggio di Giordana – e dei suoi sceneggiatori Claudio Fava, uno che di Cosa Nostra se ne intende, e Monica Zapelli – è tutto interno alla memoria degli anni ’70. Il mondo ruspante delle radio private, la contestazione con i suoi risvolti anche patetici, la rivolta di una generazione contro i propri padri. A far la differenza, a trasformare “I cento passi” in tragedia, è il contesto. Chi fondava una radio privata e sfotteva i poteri forti rischiava, a Milano o a Roma, un’irruzione della polizia. A Cinisi, Sicilia, la posta in gioco era diversa: era la morte. Peppino Impastato gioca la propria scommessa fino in fondo: figlio di un mafioso di piccolo cabotaggio, nega il sistema di valori paterni e si rifiuta di percorrere “i cento passi” che separano la sua casa da quella di Tano Badalamenti, il boss che può decidere il suo destino. Giordana rievoca la sua storia con tutto l’amore che, da regista, ha sempre avuto per i ribelli. Come già in “Pasolini”, racconta un “delitto italiano”: che qualcuno – là, l’opinione pubblica; qui, la polizia – vuol far passare per suicidio.
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