Regia di Asghar Farhadi vedi scheda film
Ritorno di Fahradi in patria, finalmente, per seguire a Shiraz le vicende di un uomo che si aggira nell’intricato labirinto dei corridoi senza uscita, alla ricerca di un volto amico e di una giustizia vera...
Rahim (Amir Jadidi) è uscito dal carcere in licenza premio per buona condotta. Ha pochissimi giorni davanti a sé per raccogliere la somma di denaro forse sufficiente a indurre il suo creditore a ritirare la denuncia per effetto della quale era finito in galera, non essendo riuscito a risarcire il proprio debito nei tempi previsti.
Apprendiamo, un po’ alla volta qualcosa di lui: che la moglie se n’era andata lasciandogli il figlioletto adolescente, afflitto da una grave forma di balbuzie, che ha una famiglia che gli vuole bene, e un amico che si adopera per indurre il creditore a ritirare la denuncia, nonché un amore segreto per la bella Farkhondeh (Sahar Goldust), a sua volta innamorata di lui, che vorrebbe sposare, appena possibile, nel pieno rispetto della legge islamica.
Ha avuto un inatteso colpo di fortuna: si è trovato fra le mani una borsa con alcune monete d’oro – occasione opportuna per ripagare il vecchio debito e finalmente vivere in pace con Farkhondeh realizzando i propri progetti.
Purtroppo per lui non sarebbe andata così: egli aveva voluto restituire la borsa con tutte le monete, convinto che Dio avrebbe apprezzato il gesto di una persona onesta, aiutandolo nelle difficoltà.
I manifesti, affissi in tutta Shiraz, con l’avviso a presentarsi per ritrovare la borsa perduta – presumibilmente da una donna – avrebbero sortito l’effetto: la borsa e le monete erano tornate nelle mani giuste…
La televisione, che non si era fatta sfuggire lo scoop, aveva orchestrato una campagna mediatica attorno all’eroe, che pur condannato per debiti, si era volontariamente privato del tesoro per lui così importante.
La sovraesposizione mediatica aveva avuto, però, l’effetto di creare intorno a Rahim due “partiti”: quello degli ammiratori fieri di condividere con lui gli ideali islamici dell’onestà; quello degli haters, che, ribaltandone l'immagine, diffondevano a piene mani sospetti, dubbi e insinuazioni, con un crescendo di ferocia alimentata da qualche mezza verità, ciò che lo avrebbe riportato in galera senza scampo possibile.
Innocente? Colpevole? È sottile il discrimine fra il vero e falso ed è difficile accertare come stanno le cose quando ci si ostina a schierarsi a prescindere dai fatti, alimentando i pregiudizi per sostenere i quali ci si avvale dei cavillosi escamotage che, attraverso molti varchi interpretativi, fanno coincidere le leggi civili, quelle morali e quelle non scritte delle consuetudini.
Il regista riprende molti dei temi che gli sono cari, e ne evdenzia il carattere paradossale facendoci assistere a un incredibile crescendo di discorsi fumosi nei quali, ossessivamente, nel tentativo di sovrapporre morale religiosa e modernità, legge islamica e diritti umani, si commettono le ingiustizie più gravi e si cerca persino di giustificarle.
Tra Pirandello e Kafka – un po’ come accade in altri suoi film – in un deragliamento angoscioso di ogni logica e di ogni razionalità.
Non troppo diversamente, però, da quello che vediamo accadere anche in qualche film girato nel nostro mondo occidentale nei quali la razionalità sembra affogare nell’indistinto sovrapporsi di voci, nella confusione babelica dei giudizi, dei linguaggi, della sopraffazione violenta. Mai come oggi il cinema a Est come a Ovest, ci parla di una società imbarbarita, che sta perdendo la bussola.
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