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The Last Duel

Regia di Ridley Scott vedi scheda film

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La recensione su The Last Duel

di mck
8 stelle

L'idea di dio, come un orologio rotto, combacia e coincide un paio di volte al dì, nei secoli dei secoli, con la plausibile verità pervicacemente ricostruita dagli esseri umani.

 

The Last Duel”, la penultima fatica (regìa e co-produzione), compres(s)a com’è fra due progetti per varie ragioni fallimentari e dimenticabili quali “All the Money in the World” e “House of Gucci”, partorita dall’allora 82enne (oggi aggiungerne un paio) stakanovista Ridley Scott, è un più che riuscito film moralista, nell’accezione migliore del termine, organizzato secondo una rashomonica (Akutagawa/Kurosawa), ma pure sedottaeabbandonatica (Germi/Vincenzoni/Age&Scarpelli: "Eh, professore, ma che siamo, nel medioevo?!"), architettura pentapartita [il prologo, la versione di Jean de Carrouges, la versione di Jacques Le Gris, la versione di Marguerite de Carrouges (ex de Thibouville), e l’epilogo] completamente disgregata/deflagrata & annichilita/annientata dal terzo capitolo con un atto perentorio d’intervento divino, cioè d’autore, consistente nello scegliere da che parte stare, e nella conseguente imposizione forzata allo spettatore di questa stessa presa di posizione: un atto politico dadaista di restaurazione progressista, messo in piedi dai tre sceneggiatori e co-produttori (la regista Nicole Holofcener, l'attore Matt Damon e il registattore Ben Affleck, gli ultimi due qui anche interpreti, uno protagonista e l’altro secondario) che hanno traslato il saggio di Eric Jager del 2004, “the Last Duel: a True Story of Trial by Combat in Medieval France”, ricostruente i fatti culminati quel 29 dicembre 1386.

“Of course, she made the customary protest, but she is a lady. It was not against her will.”
(“Ovvio, ha protestato come si conviene, ma è una signora. Non era contro il suo volere.”)

Ma è Jodie Comer (pur essendo, Marguerite de Carrouges, ex de Thibouville, estromessa dal titolo) l’anima di madreperla e carne del film, e a lei, cerulea sagittabonda, spetta la duplice messa in scena di un momento fondamentale della storia, ovverossia quando, oramai in trappola per via dell’irruzione fraudolenta di Le Gris nella magione (per l’occasione deserta e sguarnita di consorte capofamiglia e servitù), con ruffiano in avanscoperta a fare da esca, al di lui metterla, anche fisicamente, oltre che non più solo psicologicamente, alle strette, inizia a salire la scalinata interna in pietra che porta al piano superiore e alla stanza matrimoniale: se nel primo caso, raccontato dal PdV dell’assalitore, la giovane donna si volta, s’incammina e, prima di affrontare i primi gradini, si ferma un attimo per sfilarsi “eroticamente” le scarpette di pelle e stoffa, rimanendo in lunghe calze bianche a gambale, e il di lì a poco violentatore, per adesso ancora in nuce, legge, piega/reinterpreta e inventa quel gesto portandolo alla valenza di un invito da parte della già ora a tutti gli effetti vittima (durante la lunga scena vera e propria dello stupro la sua espressione, magnificamente ritratta dall’attrice in tutte le progressive e muliebri sfumature del caso, ricorda l’importante e problematico passaggio equivalente presente in Lost Highway di David Lynch & Barry Gifford, durante lo spogliarello forzato di Patrica Arquette di fronte a Robert Loggia), ecco che nel secondo caso, vissuto dal PdV dell’aggredita sessualmente, vale a dire quello della realtà e della verità oggettive, così come scopertamente dichiarano gli autori (soggettista, sceneggiatori e regista) attraverso una inequivocabile (per l'occasione Scott e soci richiedono allo "spettatore ideale" e/o al "grande pubblico" giusto quel minimo sindacale di comprensione del testo filmico e di applicazione del pensiero critico) didascalia (“the Truth According to the Lady Marguerite”, con gran parte della scritta sovrimpressa che man mano e via via scompare lasciando solo “the Truth”), lei si volta correndo per poi perdere le proprie turnshoes bizantine inciampando sui primi gradini mentre lui ne afferra i lembi del vestito: niente di erotico e consenziente, nulla, solo terrore, rabbia e disgusto.

 


«“Heaven and Earth!”... what?»
«“Cielo e Terra!”… cosa?»

Matt Damon (in un ruolo principale, quello di Jean de Carrouges) e Ben Affleck (in una parte secondaria, quella del conte Pierre d'Alençon, amico e protettore di Le Gris e cugino del Re Carlo VI di Valois, prima il Beneamato e poi il Folle), vivono al pieno e ognuno a suo modo la loro creatura, con caratterizzazioni molto spinte e un bel po’ al di là del loro standard medio di genere e al di fuori della loro comfort zone, ma funzionali e articolate, e mai macchiettistiche, mentre ad Adam Driver spetta il compito un po’ più improbo di recitare, costruire e sorreggere un personaggio un po’ più complesso (un Kylo Ren con velleità patersoniane e una propria idea di Marriage Story), ma al contempo anch’esso granitico (negare, negare sempre), riuscendoci in pieno al pari degli altri protagonisti. Da segnalare infine almeno le prestazioni di Harriet Walker (Nicole de Carrouges, la madre di Jean), Adam Nagaitis (Louvel, lo scudiero di Le Gris), Zeljko Ivanek (Le Coq, avvocato difensore di Le Gris; le sue note scritte costituiscono una parte rilevante delle fonti su cui s’è basato Eric Jager per la sua ricostruzione), Nathaniel Parker (Robert de Thibouville, padre di Marguerite) e Tallulah Haddon (“amica” di Marguerite).

Fotografia di Dariusz Wolski [prima con Tony Scott, poi con Gore Verbinski e Tim Burton, e infine con Ridley Scott, ininterrottamente (the Counselor, “Exodus: Gods and Kings”, the Martian, “Alien: Covenant” e gli ultimi già succitati), a partire da “Prometheus”, e in più il “the Walk” zemeckisiano], che qui evita ogni “scottiano” effetto “flou”. Montaggio della eighties-oliverstoniana Claire Simpson (con Scott padre e figlio anche per “Raised by Wolves”), musiche di Harry Gregson-Williams (“Kingdom of Heaven”,“Gone Baby gone”, “BlackHat”, “Catch-22”) e scenografie di Arthur Max, mentre i paesaggi e le architetture sono gentilmente offerti dalle genti che coltivarono la Dordogna, la Borgogna e l’Irlanda e ivi costruirono castelli per i loro signori. Due ore e mezza che, considerando le "ripetizioni cangianti", scorrono senza intoppi.

Alla fine, proprio come per la trasposizione conradiana dell’infinito duello napoleonico che segnò l’esordio registico nel lungometraggio per Ridley Scott, anche qui, in piena Guerra dei Cent’Anni (1337-1453), precisamente durante la sua seconda fase, dopo quella edoardiana, ovvero la Guerra Carolina (1360-1389), cui seguirà quella dei Lancaster e poi Giovanna D’Arco, ci si dimentica non delle ragioni che portarono alla faida infinita, ma di chi salvò la vita a chi, durante la scaramuccia [e questo è l’unico punto del film in cui il cortocircuito linguistico è evidente: sarebbe stato evitabile solo facendo imparare il langue d'oïl al cast anglo-americano, ma Jodie Comer (che già in “Killing Eve” ha dato prova di sé in tal senso lessical-fonetico, declinato russo) con l’accento francese di Liverpool sarebbe stata troppa bellezza da sopportare per questo povero pianeta], avvenuta nel più ampio quadro dell’Assedio e del Sacco di Limoges (19 settembre 1370), innescata dalla risposta francese alle, ehm, provocazioni inglesi (che il regista britannico non risparmia, tipo sgozzare qualche contadino limosino d’entrambi i sessi: Ah!, la Magna Carta libertatum!), fra de Carrouges e Le Gris, ché infatti non v’è traccia della piccola questione amicale di poco conto, manco di riporto, nella versione di Lady Marguerite.

PS. JodieComer.com, JodieComer.net, JodieComer.org, JodieComer.♥...

L'idea di dio, come un orologio rotto, combacia e coincide un paio di volte al dì, nei secoli dei secoli, con la plausibile verità pervicacemente ricostruita dagli esseri umani.

* * * ¾ (****)   

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