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Space Cowboys

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Space Cowboys

di scapigliato
8 stelle

“Space Cowboys”, ovvero i “I Nonnetti dello Spazio”. Il film, l’ambietazione e la trama virile si prestavano perfettamente ad un prodotto videoclipparo, pieno di musiche dence o rap, e popolato dai soliti bellocci giovani usciti dal piccolo schermo. Invece, per nostra fortuna e per la fortuna del Cinema stesso, Clint Eastwood accarezza lo spazio e i suoi quattro “teen-agers” con una un’affettuosità tra il nostalgico e il vitalista. Infatti il suo lavoro non va visto solo come elogio del passato, o ad una rivalsa dei “vecchietti” che se vogliono possono dire ancora la loro. Il film di Eastwood, come al solito, tocca corde invisibili, travalica il genere e il cinema d’autore tout-court. Diventa la rappresentazione mitica del labirinto emotivo umano. Il suo cinema non riproduce la realtà, e nemmeno la registra. La rappresenta. Ci gioca, la interroga, la strattona, la inclina, la mette davanti al senso di disagio che l’uomo moderno, o meglio ancora eastwoodiano, sente perfettamente suo ma da cui non si lascia ancora schiacciare. Un peso da cui è bello farsi trascinare, ma poi bisogna prendere per le palle la vita, guardarla negli occhi ed urlarle a denti stretti: “Ehi.. guardami in faccia quando ti parlo!”.
Il viso di Eastwood è sempre una scultura che parla e innamora. Le sue mani, le sue rughe, la sua anca storta, il suo passo lungo alla Henry Fonda, i suoi piccoli occhi tirati. Tutto il “corpo” eastwoodiano parla, dice la sua, entra nelle pieghe della vita, quelle rappresentate sullo schermo, nelle quali riconosciamo molte cose, e così capiamo senza che nessuno ci spieghi. In “Space Cowboys” al grido di battaglia di Donald Sutherland “In sella cowboys, c’è parecchio lavoro da fare!”, non possiamo che, da un lato confermare i caratteri western che Eastwood affettuosamente mette nel suo film, e dall’altro non possiamo che accorgerci del trasporto che un film “vacanza” come questo, lontano dall’impegno suo solito, ci lascia addosso. Tutti gli interpreti contribuiscono in questo, dal folle e sempre bravo Donald Sutherland, il gigante che troneggia sempre quando viene inquadrato; il tenero James Garner, l’unico che ti verrebbe voglia di chiamare “nonno”; e poi quel Tommy Lee Jones che impara da Eastwood a fare cinema e ad amarlo visceralmente. Perchè solo chi ama e crede al Cinema con la “C” maiuscola può accarezzare lo spazio come ha fatto Eastwood. E non solo, ma solo un autore come lui, troppo lontano dai classici così com’è troppo lontano dal post-moderno, poteva inserire “Fly Me To the Moon” consegnando quell’ultima scena finale all’antologia del miglior cinema di sempre. E solo lui, il grande Clint, poteva raccontare con tenerezza e con distacco l’amicizia tra il suo personaggio e quello di Tommy Lee Jones. Due caratteri fantastici, con dialoghi mai inutili, e sguardi che si cercano come si evitano. Tutti abbiamo un’amicizia conflittuale, e lo capiamo subito, fin dall’inizio del film che si parlerà di noi, e di quella storia. Non c’è infatti una vera love story portante a livello narrativo, ma solo questa amicizia-rivalità virile. E Eastwood, sul finire della pellicola, davanti all’estrema scelta dell’amico o presunto tale, nonostante lo senta, non gli concede nulla. Né una bella parola, né una verità mai detta, né una lacrima. Nemmeno lo saluta, ma lo guarda sconvolto. Lo guarda sconvolto, ma comprensivo. Solo un grande amico sa guardare in quel modo.
“Space Cowboys” non solo sposta la frontiera del west tra le stelle, ma ci parla di uomini e della loro amicizia. Anzi... ci parla di due “ragazzi” che si volevano troppo bene per vivere uno in fianco all’altro. Forse avrebbero mal sopportato i dispiaceri altrui. Grande Clint. Trova una corda umana nascosta e la fa suonare. E come la fa suonare lui...

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