Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Da un lato Scorsese ci aveva abituati a pellicole “fluviali” che superavano senza tema le 3 ore, ma dal ritmo forsennato. Ricordo la trama senza sosta di Quei bravi ragazzi, il tripudio di colori, costumi, suoni di Casinò, i fasti, le bellezze (anche fisiche) e le battute di The wolf of Wall Street. Così come i protagonisti dei film citati, anche Ernest Burkhart è parte di un meccanismo ben più grande di lui. Tuttavia egli rimane una pedina nelle mani del potente e scaltro William Hale, vero tessitore dei fili e delle tragedie che si consumano alle spalle della popolazione Osage. Di nuovo, proprio come i protagonisti di quei film, anche Ernest si troverà accerchiato da un sistema che crolla sotto i colpi della giustizia, arrivando a dover cooperare con i rappresentanti dello stato, uscendone in qualche modo indenne ma orfano di quel contesto che lo ha fatto prosperare (emblematici i finali delle 3 pellicole citate in cui, a partire da Henry Hill interpretato da Liotta, passando per Sam “Asso” Rothstein di De Niro fino al Jordan Belfort devono reinventarsi come “comuni mortali”, dopo anni sulla cresta dell’onda). L’intento di “dare giustizia” al popolo dei pellerossa attraverso una vicenda tutto sommato poco conosciuta è nobile e interessante, sganciandosi dalle ben più celebri tematiche relative alla Conquista del West, a sua volta già ampiamente ridimensionata con l’avvento della “New Hollywood degli anni ’70 (sebbene si debba riconoscere che John Ford abbia chiuso la propria carriera con un western “risarcitorio” nei confronti dei nativi americani, già nel 1964 e ancor prima avesse messo in risalto le contraddizioni dell’esercito con Il massacro di Fort Apache del 1948). Tuttavia la pellicola, nella spirale di violenza e di sconforto che lo spettatore vive attraverso gli occhi della povera Mollie, a cui viene letteralmente sterminata l’intera famiglia, non ha un vero momento in cui scalda gli animi del pubblico: DiCaprio con un costante sguardo da mastino ignorante appare monocorde, De Niro si svela il cattivo sin dall’inizio ma non gli viene lasciato qualche momento di bravura, a parte qualche sermone sulla (falsa) amicizia che nutre per gli Osage. Ben più convincente l’interpretazione di Lily Gladstone, sebbene in questi casi venga quasi naturale pensare che sia uno di quei ruoli perfetti per accalappiare un Oscar, più per il personaggio che per la bravura attoriale. Ma soprattutto si fa fatica a riconoscere la mano del regista, difficile vedere una sequenza in cui si possa dire “sì, questa è una scenda di Scorsese” come avveniva sovente in film di uno dei registi dallo stile più personale. Al contrario alcune sequenze appaiono quasi di “maniera”: la parte del corteggiamento tra Ernest e Mollie, la sequenza del matrimonio, oltre ad una narrazione non sempre proprio chiara nella definizione dei personaggi. Sul finale è brillante la trovata di lasciare l’epilogo ad una trasmissione radiofonica in cui possiamo veder partecipare lo stesso regista.
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