Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Partiamo dalla Storia (che non fa mai male).
Gli Osage, popolo di nativi americani originari di Ohio e Missouri, durante la seconda metà del XIX secolo furono obbligati dal Governo federale a stabilirsi in una riserva in Oklahoma.
Poco tempo dopo, ironicamente, quelle stesse terre “regalate” agli indiani si rivelarono ricce di giacimenti petroliferi che resero i suoi proprietari, ovvero gli stessi nativi Osage, incredibilmente ricchi e la popolazione con il più alto reddito pro-capite degli stati Uniti.
In conseguenza di questo, le terre Osage vennero invasi da approfittatori, speculatori, criminali o da qualsiasi malintenzionato senza scrupoli con l’intenzione di appropriarsi delle loro ricchezze sfruttando qualsiasi mezzo necessario, compreso l’omicidio.
A difesa (!) degli Osage, il governo degli Stati Uniti elaborò un sistema, tutt’altro che egualitario, basato sulla tutela di amministratori delegati (bianchi) dallo Stato che, pur restandone proprietari, ne amministravano per conto loro le ricchezze.
Questo ovviamente lasciò gli Osage in balia di vere e proprie truffe legalizzate che sfociarono, intorno a metà degli anni’20, nel cosiddetto Regno del Terrore, quando diversi nativi vennero trovati assassinati o sparirono in circostanze misteriose, finché la neonata FBI di Hoover non fu chiamata a risolvere il problema.
Molto brevemente (e molto approssimativamente) la storia ci dice questo.
President Calvin Coolidge with Osage Indians at the White House in 1925.
Dalla storia passiamo poi al libro.
Di questa vicenda ormai rimossa dalla memoria storica della nazione si è infatti recentemente occupato il giornalista David Grann, già autore di opere diventate pellicole cinematografiche come The Lost City of Z (Civiltà perduta, 2016) e The Old Man and the Gun (ll vecchio e la pistola, 2018), nel suo saggio Killers of the Flower Moon (2017), best seller del New York Times pubblicato in Italia da Corbaccio con il titolo (lunghissimo) Gli assassini della Terra Rossa: Affari, petrolio, omicidi e la nascita dell'FBI. Una storia di frontiera il cui punto focale del racconto è soprattutto la nascita dell’FBI, con il personaggio dell’agente Thomas Bruce White e dei suoi uomini al centro della scena.
E dal libro, alla fine, arriviamo finalmente al film.
Killers of the Flower Moon è la crime-story alla base della nuova opera di Martin Scorsese, adattato da lui stesso insieme a Eric Roth, con una prima stesura della sceneggiatura piuttosto fedele al racconto di Grann e con protagonista Leonardo Di Caprio nel ruolo di Tom White e Robert De Niro invece in quelli del mefistofelico William Hall.
Ma Scorsese era più interessato al sangue, al marcio e alle contraddizioni della vicenda che non all’ennesimo, integerrimo eroe "tutto chiacchiere e distintivo" e fu quindi ben felice di assecondare l’intuizione dello stesso Di Caprio, quando propose di interpretare il viscido Ernest Burkhart piuttosto dell’eroico Tom White, spostando quindi completamente il punto di vista dai “buoni” a quelli dei cattivi della storia (sta qui, forse, un certo disappunto di De Niro che già pregustava, immagino, una review del suo scontro da Oscar ne Gli Intoccabili tra Hall/Capone &. White/Ness).
Intenzioni del regista che si palesano fin da subito nella pellicola, passando da un iniziale rituale religioso di un anziano indiano Osage a un getto violento di liquido nero fuoriuscito dalla terra e a un gruppo di Osage, molto più giovani, a esultare (al rallentatore) per un "miracolo" praticamente caduto dal cielo, O rigettato dall'inferno.
Dalla Religione al materialismo, quindi. Da Dio al denaro.
Con uno stile ancora potente ma fattosi, nel tempo, sempre più dilatato (diluito?), Killers of the Flower Moon ci offre, al prezzo di uno, tutto (o quasi) il cinema di Scorsese, dai gangster movie al film spirituale, compendio di mitologia criminale e dell’apologia del male raccontando un momento estremamente oscuro, ma dimenticato, della storia americana.
Ma nonostante le tre ore e venti minuti (un tantino eccessive), un budget milionario e i soliti, grandissimi, attori quello che doveva (presumibilmente) essere un racconto sulla (vera) natura del capitalismo americano si rivela piuttosto una più semplice saga familiare, un triangolo di odio, amore, inganni e soprattutto (tanta) avidità di tre protagonisti assoluti che, nel ben e nel male, sono (e fanno) il Film.
Killers of the Flower Moon filtra infatti l’intera vicenda dal punto di vista di questi tre personaggi chiave attorno al quale ruotano moltissimi altri personaggi ma raramente lo script ne sacrifica la centralità, sfruttandoli piuttosto come (unica?) chiave di lettura in grado di farne emergere le complessità, anche e soprattutto emotive, della vicenda attraverso una (estenuante?) successione di dialoghi di alterne riuscite.
I tre sono Ernest Burkhart ovvero Leonardo Di Caprio (mai così brandorizzato come in questa pellicola da renderlo, in certi casi, quasi irriconoscibile), inetto e avido marito di Mollie Burkhart ovvero Lily Gladstone, moglie e vittima sacrificale di origine Osage, ingannata, derubata e avvelenata dal marito (e a sorpresa protagonista inattesa del film) e infine, il William Hale di Robert De Niro, zio (o Re) di Ernest, gangster puro e semplice a capo di una gang di bianchi pronti a tutto pur di arricchirsi sulle spalle degli Osage (e infatti assomiglia un po' troppo al classico mafioso italo-americano, e non so quanto questo sia effettivamente voluto).
"Zio, mi hai fatto un'offerta che non posso rifiutare.."
E se le scene tra DiCaprio e la Glastone sono oggettivamente quelle più riuscite quelle tra lo stesso Di Caprio, ingenuo e malleabile reduce di guerra, e De Niro, vero burattinaio di morte, risultano talmente eccessive da apparire addirittura buffe, in una specie di gara a due tra chi si smascella di più, per un rapporto che si prefigura non tanto come riadattamento di quello tra padre e figlio quanto piuttosto come una meno banale variante di dominazione tra maestro e allievo con il secondo che, mellifluamente, convince il nipote a partecipare al processo di appropriazione (indebita) delle ricchezze Osage in quanto, poverini, il loro declino è ormai inevitabile.
Ma di quanto ne è davvero consapevole? Cosa sta facendo di proposito e quanto è invece vittima delle circostanze (o della sua stessa stupidità)?
Domande legittime in quanto non solo Di Caprio ma anche altri personaggi sembrano, nonostante le evidenze, non riuscire a percepire pienamente le proprie responsabilità.
Il film non è un western, nonostante l’ambientazione, e non è nemmeno un gangster movie, benché nel finale, con l’entrata in scena dell’FBI, assomigli molto (non a caso) a Quei bravi ragazzi, ma è piuttosto un’apologia sulla banalità del male, una discesa nell’inferno dell’immoralità e un viaggio in un mondo, un west senza regole e (ormai) senza miti, dove tutto è permesso e i sentimenti, anche quando veri, vengono subordinati dall’avidità e dall’ingordigia.
Ma Scorsese, a ottant’anni, è stanco e non ha più la foga di un tempo e costruisce un dramma, tecnicamente ineccepibile, che però raramente emoziona davvero permettendo che una vicenda di omicidi, a volte anche buffi o semplicemente stupidi, commessi poi da figure tragicamente grottesche, come un pasticcione che non sente la responsabilità delle sue azioni e un mostro manipolatore più arrogante e stupido che crudele, dipanarsi con un ritmo (troppo?) compassato, quasi anti-climatico.
Alle prese con un mondo che non conosce davvero Scorsese lo adatta alla sua maniera, ovvero basandosi su quello che conosce meglio, e finendo quindi per raccontare l’ennesima (!) storia di un branco di villani arroganti che parla esclusivamente la lingua della violenza e dei soldi ma al contrario di altre sue pellicole non c’è nessun eroismo criminale questa volta, nessuna epica della violenza quanto piuttosto un lirismo deformante, quasi grottesco, mentre il romanticismo (e l’amore) affoga nell’avidità e nell’ambizione che sovrasta qualsiasi altra cosa, lasciandosi dietro di se soltanto sgomento e desolazione.
“l’uomo bianco parla lingua biforcuta”
E già.
VOTO: 7
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