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Killers of the Flower Moon

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Killers of the Flower Moon

di Antisistema
8 stelle

L’oro nero è la nuova divinità a cui il popolo Osage inneggia, per una salvezza insperata. La logica dell’indipendenza passa dal seppellimento di antiche tradizioni, abbracciando le regole dell’economia di mercato.
E’ una sorta di ucronia quella creata dagli Osage, rispetto alle altre tribù indiane, sottomesse e confinate nelle riserve dall’uomo bianco, qui passato da padrone a subordinato degli “ex-selvaggi” arricchiti. Un capitalismo andato oltre la mera facciata economica, ergendosi ad espressione “civile”. Gli ingranaggi monetari stabiliscono le nuove gerarchie del potere, livellando il campo da gioco e consentendo ad un popolo non civilizzato, di poter fare pieno ingresso nella società americana razzista e segregazionista del tempo.
Il petrolio fuoriuscito dalla terra, ha reso possibile l’impossibile, ma ha corroso l’identità degli Osage, oggetto di una malcelata tolleranza da parte dei bianchi, pronti a reagire in modi più sottili ed obliqui. “Killers of the Flowers Moon” di Martin Scorsese (2023), è l’ennesimo tassello di un grande puzzle, delle radici marce ed inquinate, sulle quali sono state edificate le fondamenta degli Stati Uniti.
La vastità degli spazi dell’Oklahoma, viene ricondotta al microcosmo della città di Fairfax, in cui spadroneggia il mefistofelico William K. Hale (Robert De Niro).
Scorsese padroneggia lo spazio geometrico della vicenda, collocando il latifondista lungo una linea retta, quando si ritrova in contatto con membri della comunità indiana, mostrandone la maschera di uomo affabile e dalla considerazione paritaria nel rapporto Osage/uomo bianco.
Il machiavellismo di tale figura, viene messo in scena tramite una semplice modifica di posizionamento. La costruzione del montaggio plasma inquadrature oblique, riconducendo sull’asse superiore la figura tirannica di William, su quella inferiore l’imbelle nipote Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio). Un rapporto di dominato. Psicologico e familiare, prima ancora che economico. L’avidità senza fine dello zio, s’insinua nella comunità degli Osage come una malattia, che ne corrode il corpo e ne fiacca lo spirito poco a poco, sino alla morte. Un familismo amorale, che privilegia il proprio nucleo… finché ne resterà uno solo; William, e poi neanche più lui.
La logica dell’economia di mercato, dove ognuno è fautore della propria ricchezza, viene rinnegata dagli stessi bianchi che l’hanno creata, a vantaggio dell’assimilazione degli indiani ai valori e alla cultura occidentale, tramite il sacramento del matrimonio. Lungi dall’essere un legame che unisce due comunità diverse, ne rimarca le irrimediabili differenze di retro-pensiero, subordinando i sentimenti al guadagno economico derivante dai terreni petroliferi posseduti dagli Osage.
Lo stesso Ernest, su pressioni dello zio William, sposa la benestante Mollie (Lily Gladstone), in un unione che mescola sentimento, violenza e denaro. I tre perni filmici di un’anti-epopea fluviale, ricca di rimandi al cinema muto/western/gangster, con tanto di citazioni alle opere precedenti di Scorsese, che qui asciuga la regia e colonna sonora, attraverso dapprima una lunga introduzione etnografica sulla cultura Osage, per poi edificare attraverso il sangue dei delitti, le vere fondamenta dietro i falsi miti della nazione americana.

 

Leonardo DiCaprio, Lily Gladstone

Killers of the Flower Moon (2023): Leonardo DiCaprio, Lily Gladstone


Una certa fluvialità è sempre appartenuta al cinema del cineasta di New York, ma con l’avanzare dell’età, Scorsese sembra divenuto estremamente loquace nella gestione narrativa. I tempi lenti e dilatati, non sempre risultano giustificati da una costruzione narrativa, che accumula corpi su corpi, facendo divenire poco a poco gli indiani da soggetti attivi a mero “body count”, de-privato di sentimenti e personalità.
L’eccezione risiede solo nel microcosmo della famiglia di Mollie, che sembra racchiudere al proprio interno, ciò che resta dei valori Osage pre-civilizzazione.
Non deve sfuggire la simbologia del gufo, nelle “visioni” sogno-realtà dapprima della madre e poi della stessa Mollie, di questo animale custode e guardiano del sapere, ma anche capace di vedere nell’oscurità della notte, andando oltre la coltre buia della ragnatela di segreti ed inganni costruita dai bianchi.
Gladstone regala in questo senso una prova recitativa all’insegna di una fiera serenità d’animo, ad una figura dal sorriso quasi sempre accennato e di spiccata intelligenza. Quasi spiace vederla relegata nella seconda parte di film, ad un lungo e doloroso abisso di “passione”, eclissando così le potenzialità notevoli di un personaggio, per favorire il dualismo megalomane dei due protagonisti maschili.
De Niro-Di Caprio, si destreggiano in un rapporto di dominato-subordinato, che relega il secondo in una performance confusa, tanto quanto il suo Ernest; utile idiota sempre inconsapevole di quanto sia grave ciò che sta facendo, nonostante gli ostentati eccessi di smorfie superflue e quel “grugno” alla Don Vito Corleone, così accentuato nella caricatura forzata, nel restituire un ritratto esterno di sé stesso, al di fuori della realtà.  
Un’opera quindi eccessiva, che accumula corpi e sangue in quantità smisurata, riconducendola sempre al vertice rappresentato da un William, che gestisce il tutto con assoluta pacatezza interiore e senso di normalità quasi straniante rispetto al contesto violento. De Niro ritorna ai fasti di un tempo, con un’interpretazione più classica rispetto a quella dei suoi colleghi, data la tipologia di personaggio, ma alquanto ricca di sfumature interiori, e striscianti pensieri di disgusto razzista per gli Osage, catalizzati attraverso il semplice sguardo. In questa armonica-disarmonia, s’inserisce il superfluo di Scorsese, che infila a ¾ di film, un ridondante segmento di indagine, in cui la componente investigativa manca di qualsiasi tensione e costruzione del giallo, poiché tutto già noto allo spettatore sin da inizio film.
Tanto lunga quanto superflua, Scorsese abbandona ogni sguardo verso di Osage, riducendoli a meri oggetti, per focalizzarsi attraverso le figure dello zio e nipote, sui temi della colpa, redenzione impossibile e la corruzione morale. Ma la trattazione processuale risulta avara di soprese registiche, di montaggio e costruzione visiva. Il solo primo piano sul volto di Di Caprio, è ben poca cosa rispetto alla notevole inventiva e alla freschezza dell’analoga costruzione di un processo mostrata in “Oppenheimer” di Christoper Nolan (2023), a cui confronto l’opera di Scorsese sembra la scimmia di “2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick (1968), nell’atto di guardare il monolito nero che porta in sé l’evoluzione del cinema, chiedendosi con aria interrogativa cosa sia.
Ma la cronologia a Scorsese capace di far passare tanti anni in pochi stacchi di montaggio, non interessa, in quanto volto a cogliere il senso “spirituale” dei personaggi, in un finale beffardo nella sua costruzione sensazionalistica spettacolare, in cui tutto c’era bisogno, tranne di un regista-autore che da demiurgo invisibile, sentisse la necessità egocentrica di farsi uomo, mettendo il sé innanzi alla storia.

 

Lily Gladstone, Robert De Niro, Jesse Plemons

Killers of the Flower Moon (2023): Lily Gladstone, Robert De Niro, Jesse Plemons

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