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Killers of the Flower Moon

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Killers of the Flower Moon

di gerkota
7 stelle

Pellerossa impreparati alla gestione del tipo di economia importata dall’uomo bianco, geneticamente inadatti alla furberia e al sotterfugio della finanza e che scivolano, proprio perché rammolliti dall’opulenza, nella melanconia depressiva di un popolo strappato alle antiche abitudini e tradizioni e alla simbiosi con la natura. Film troppo lungo

NEI CINEMA ITALIANI DAL 19 OTTOBRE 2023

VISTO AL KING DI LONATO DEL GARDA IL 22 OTTOBRE 2023

 

 

L’ultima cosa che ti rimaneva, Ernest, era l’amore di questa bella donna indiana che ha sempre creduto in te e che nelle tue mani ha messo la sua stessa sopravvivenza. Ma è l’ultima bugia che le racconti a fregarti per sempre, prima che ti si spalanchino le porte del penitenziario. L’ennesima bugia detta coi tuoi occhi nei suoi. Ce n’è sempre una di troppo, fra un uomo e una donna. Ed è la bugia che non trova più spazio di tolleranza, perché tutto è stato ormai occupato dal dolore.

 

Il set del film, con attori e comparse di nativi americani

nei loro costumi tradizionali (foto osagenews.org)

 

Qualcuno ha accolto con sospetto o tiepidissimo entusiasmo l’arrivo in sala di questo ventiseiesimo lungometraggio di Martin Scorsese (deludente, a mio avviso, l’acclamato The Irishman del 2019, il precedente) e addotto la motivazione di una sua probabile superfluità nel complesso di una filmografia monumentale. Al contrario la sola storia in sé - risalente agli anni ’20 del Novecento - di Killers of the Flowers Moon (ridotta, nemmeno troppo, per il cinema dal saggio storico del 2017 del giornalista David Grann, in Italia pubblicato da Corbaccio e intitolato Gli assassini della terra rossa, con la traduzione di Francesco Zago) è sufficiente a fare di questo film un lavoro tutt’altro che inutile, dal momento che i fatti realmente accaduti riportati nel libro (osannato perfino dal Time) sono stati definiti dallo stesso Grann come il risultato di «una vera e propria cospirazione ai danni di una nazione indiana» (cfr. Wikipedia), in questo caso quella degli Osage, nello stato dell’Oklahoma (area centrale del sud degli Usa), nel territorio in cui sorge la cittadina di Fairfax. La trama vi mette a parte di molto altro. Nell’adattamento scritto dallo stesso cineasta in appoggio all’esperto screenwriter Eric Roth, la sequela di misteriosi e spesso efferati omicidi di cui furono vittime soprattutto uomini e donne pellerossa, si impone all’attenzione di un pubblico perlopiù inconsapevole degli specifici accadimenti, come ennesima prova di quale sia stato, nel corso dei secoli e fino all’era moderna, il trattamento perpetrato ai danni dei nativi americani dal colonizzatore - quello bianco in particolare - del Nuovo Mondo.

 

A sinistra il giornalista David Grann,

autore del saggio storico da cui è stato tratto il film (foto westvanlibrary.ca)

 

La scenografia propone perlopiù un’ambientazione western, l’immagine di un mondo ormai vintage ma che resiste allo strombazzante incedere dell’automobile, già divenuta simbolo di ricchezza e confine sociale. Realistica la restituzione degli ambienti d’epoca, interni ed esterni, incluso tutto ciò che appartiene alla comunità dei nativi, a cominciare dai loro indumenti tradizionali e da quelli assimilati in seguito all’inattesa ricchezza. In molte scene è opportunamente utilizzata la lingua sioux, sottotitolata tranne che in qualche fase in cui la comprensione è lasciata un po’ all’intuizione o alla logica del flusso narrativo o a coloro che comprendono l’idioma sioux. Le musiche, anche quelle che richiamano le sonorità tipiche degli indiani d’America, sono del chitarrista canadese Robbie Robertson, deceduto a 80 anni lo scorso 9 agosto, nemmeno un anno dopo la fine della produzione del film.

 

assassini-del-fiore-luna-1-750x400.jpg

 

Storia di mafia, anche, simboleggiata alla perfezione dall’iconica maschera di un Robert De Niro ottantenne (quest’anno sarà anche chef in pensione e ancora una volta nonno nella commedia Ezra - Viaggio di famiglia, prossimamente nelle sale) sempre più caricaturale di se stesso eppure ancora capace, tirate le somme, di convincere chi guarda, tanto gli è congeniale produrre smorfie, occhiate in tralice e ghigni luciferini che trasmettono tutta la protervia, la smodata avidità e la pericolosità dell’uomo e leader mafioso, a prescindere da quale sia la sua collocazione geografica e da che tipo di sangue gli scorra nelle vene. Il suo ‘re e zio’ William Hale non è altri che un padrino che manovra i fili di un’intera comunità, intimidita dalla sua spietatezza camuffata da bigotta benevolenza, assai più strafottente e subdolo del Vito Corleone di Ford Coppola. Questo mammasantissima scorsesiano, con la sua famiglia ‘perbene’ e i suoi scagnozzi, è infiltrato come un cancro nella carne viva del popolo Osage - arricchitosi per puro caso dopo l’improvvisa scoperta di un gigantesco giacimento petrolifero - e come un tumore maligno, per crescere, si aggrappa alle parti deboli di quell’organismo e le fa degenerare, marcire e poi morire.

 

Robert De Niro compares his ‘Killers of the Flower Moon’ character to “stupid” Donald Trump

Robert De Niro in una scena

di Killers of the Flower Moon (foto faroutmagazine.co.uk)

 

I pellerossa sono impreparati alla gestione del tipo di economia importata dall’uomo bianco, geneticamente inadatti, in media, alla furberia e al sotterfugio della finanza e scivolano, proprio perché rammolliti dall’opulenza, nella melanconia depressiva di un popolo strappato alle antiche abitudini e tradizioni e alla simbiosi con la natura, che annega spesso nell’alcol illegale del proibizionismo la propria incapacità di interpretare una parte scomoda in una recita scritta da/e per altri. L’anima collettiva degli Osage – ma probabilmente di tutti gli indiani d’America - è in tal modo sempre più sepolta in profondità dai cambiamenti della storia e scompare alla vista come la pipa di un vecchio capo indiano messa sotto terra e nascosta perché nessuno ha ormai più motivo di fumarla.

 

'Killers of the Flower Moon': Inside the Birth of the FBI

Immagine dell'epoca: ciò che accadde alla tribù degli Osage

è un capitolo oscuro e dimenticato della storia dell'America (foto rollingstone.com)

 

La lunghezza eccessiva del film – soprattutto della prima parte, quella in cui sarebbe stato più logico tagliare - è, come temuto dai più, il punto debole di questa pellicola nella quale i fatti raccontati e gli episodi salienti non giustificano una così ostentata diluizione. Come se l’esperto ma anziano regista fosse oggi persuaso che ‘grande’ film debba significare anche ‘lungo’ film (The Irishman durava perfino tre minuti di più, esattamente tre ore e ventinove). Qualcuno ha detto che un buono spettacolo di intrattenimento non dovrebbe durare più di due ore. Anche se ciò non fosse vero in assoluto – e non lo è - resta che se però si supera questa soglia, in un film ad esempio, è necessario che ogni scena contenga abbastanza forza e pathos da far bramare al pubblico di vedere quella successiva e di augurarsi che quel viaggio nella finzione termini il più tardi possibile. In Killers of the Flower Moon, invece, l’effetto ottenuto dalla sovrabbondanza temporale è che in diversi momenti l’attenzione e la compassione dello spettatore sono messe a dura prova, al punto che la proiezione sembra quasi una sfida lanciata da Scorsese, come se egli volesse scovare e selezionare il suo pubblico ideale, costringendolo a una forzosa maratona visiva per poi contare in quanti sono rimasti in piedi (o svegli, meglio dire… ). All’ultima mezz’ora, quella che porta all'apice del climax e ai colpi di scena, si arriva quasi stremati da tre ore in cui la curiosità per la vicenda è stata di continuo spezzettata e stemperata.

 

"Potremmo anche parlarne": Martin Scorsese si è rifiutato di ignorare la storia in Killers Of The Flower Moon

Il regista Martin Scorsese (80 anni)

durante una presentazione del suo ultimo film (foto www.koimoi.com)

 

DiCaprio e De Niro quali main actors sono la scelta azzeccata e dominano la scena. La maiuscola prova del primo (qui anche produttore esecutivo e di recente da me applaudito per la partecipazione al divertentissimo Don't Look Up del 2021) in particolare, giustifica in gran parte la decisione di aver dato fiducia all’ultimo film del cineasta italo-newyorchese. Leo veste i panni di Ernest Burkhart, nipote del mefistofelico zio William e reduce della Prima Guerra mondiale la quale lo ha sputato via traumatizzato, intontito e dipendente da ogni tipo di superalcolico. I tratti del suo volto sono leggermente modificati grazie a un trucco di qualità, soprattutto a livello della mascella e nella dentatura. Offuscato da una sorta di semi-ebetismo reso dalla bravura dell’attore (in una delle poche concessioni all'ironia di tutto il film, lo zio William gli dice: "Ehi, Ernest, guardami, guardami come se avessi capito... ") , l’ex soldato è incapace di leggere la trama perversa tessuta dal Re, che quindi lo muove come una marionetta violenta e ne fa un uomo spietato e senza scrupoli, mentre la sua vita nella società e nella famiglia continua per troppo tempo indisturbata, quasi come se le sue malefatte fossero del tutto naturali. La difficoltà – superata - per l’interprete di Los Angeles, era riuscire a convincere lo spettatore - grazie alla mimica facciale del protagonista in contrasto con le sue gesta - che in fondo il suo grezzo e pericoloso Ernest è più che altro un ex buon uomo, degenerato nelle trincee della Francia, ormai disperato e fuori controllo, ma per davvero innamorato della moglie e dei figli.

 

Killers of the Flower Moon

Leonardo DiCaprio in una scena del film (foto syracuse.com)

 

Nel cast trova spazio anche un sempre pronto Jesse Plemons (candidato all’Oscar lo scorso anno per il cerebrale western Il potere del cane di Campion) che entra in scena nella parte più appassionante dell’interminabile racconto in immagini nei panni dell’ex Texas Ranger e agente dell’Fbi Tom White – titolare di quella che pare sia stata la prima grande indagine del ‘giovane’ Federal Bureau of Investigation - che nel saggio da cui è tratta la sceneggiatura è il protagonista principale della storia e che, in un primo momento, sembrava dovesse essere interpretato da DiCaprio. Fra gli attori che incarnano gli Osage, si rivedono alcuni volti conosciuti nell’indimenticabile Balla coi lupi (Kevin Costner 1990), in particolare quello della sempre bravissima Tantoo Cardinal che qui è l’anziana e sensitiva madre delle sorelle di Mollie Burkhart, a sua volta interpretata da una per me sorprendente Lily Gladstone (nel cast dell’apprezzato dramma Certain Women del 2016), nativa americana della tribù dei Piedi Neri.

 

Una donna indossa un cappotto decorato con bottoni e spalline dorate.  Sulla sua testa c'è un alto calore decorato con piume bianche attorno all'orlo.

Lily Gladstone è la nativa Mollie Burkhar nell'ultima opera

di Martin Scorsese (foto nytimes.com)

 

L'annuncio del film è un gruppetto di Osage che contempla la propria terra, quando dal sottosuolo un improvviso e potente getto di vischioso liquido scuro si alza verso l’alto e ricade a pioggia su di loro che cominciano a danzare e a slanciare le braccia verso il cielo, in segno forse di ringraziamento. Ma le grosse grasse gocce che imbrattano i loro corpi quasi nudi, questa volta, non sono della pioggia che li lava ma del petrolio che ne infangherà la loro ancestrale innocenza e quella di un’intera nazione di nativi con l'illusione di un'oziosa e infruttifera felicità.

 

In una scena un gruppo di Osage festeggia

l'arrivo del petrolio nella loro storia

 

Film da vedere e per tutti, nonostante le stelle per me non arrivino a quattro. Voto 7,7; rivedibilità 7/10.

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