Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
In Killers of the flower moon manca qualcosa: l'epica, la passione o almeno la furibonda denuncia. E' un film stanco più che disilluso, un racconto di chi le ha viste – e narrate – tutte, sottomesso allo sguardo senza stupore dell'entomologo e allora sembra scandito come un radiodramma questo film, cosa che in effetti è.
C'era una volta, in una pianura lontana lontana, un popolo pacifico che aveva avuto la fortuna di piantare le proprie tende e far crescere i propri figli su una terra imbevuta di petrolio.
Per una strana coincidenza del destino, questo piccolo popolo incrociò il suo tempo con quello della modernizzazione della Nazione che esigeva l'oro nero per le sue industrie, le sue navi e le sue auto.
Era il 1920. Era l'Oklahoma. E questi pacifici, sprovveduti, rubicondi appartenenti alla tribù degli Osage divennero a tutti gli effetti le persone con il più alto reddito pro capite del mondo.
Indeboliti da malattie genetiche ereditarie, fiaccati nell'orgoglio guerriero dall'imborghesimento sociale, avvezzi a lenire le depressioni con l'alcool e facile preda degli scaltri coyote bianchi, gli Osage erano un popolo destinato un secolo più tardi ad avere una lapide scolpita in loro memoria da un film di Martin Scorsese.
Killers of the flower moon racconta una storia vecchia come il mondo. Una storia che è archetipo di tutte le storie che permeano le vicende terrene degli umani, attirati dalle ricchezze a discapito dei più deboli. E' una storia di colonialismo grondante sentimenti di indulgenza auto-assolvente. Una cosa molto cristiana. Molto bianca.
E' la stessa storia di ogni minoranza che ha calpestato qualsiasi luogo di questa palla azzurra sospesa nel nulla. E' la stessa storia di Avatar. Del Medio Oriente. Degli Inca. De L'invasione degli ultracorpi. Una storia vecchia che parla attualità. Parla di sostituzione etnica e razzismo. Di popolo oppresso e di oppressori, di falsi amici, di famiglie già non più luogo di pace e sicurezza, piuttosto lugubre congrega di mostri dal volto buono.
Sono questioni care a Scorsese che ha trovato nel libro di saggistica di David Grann del 2017 Killers of the Flower Moon: The Osage Murders and the Birth of the FBI , l'ennesima variazione sul tema dell'altra America, quella che ha lavorato nell'ombra per brevettare il Sogno Americano sorretto da Dio, Patria e Famiglia, proto gangster e razzismo, e spacciarla al mondo intero come occasione di prosperità e libertà.
Fairfax, Oklahoma, nazione indiana, territorio di fuori dal mondo conosciuto è in miracoloso equilibrio tra nativi protetti dai drappi colorati delle tradizioni e del folklore che viaggiano su moderne automobili e colonialismo trash bianco, buzzurro e violento al loro servizio. Una strana epidemia di morti violente comincia a rosicchiare i già pochi componenti dei ricchi indigeni mentre le orgogliose donne Osage si fanno sempre più coinvolgere in matrimoni misti che stemperano il glorioso sangue guerriero in un miscuglio bastardo di vigliaccheria e alcool.
Il tutto sotto lo sguardo vigile di un bonario e ambiguo tutore dell'ordine, il “Re di Fairfax”, William Hale (Robert De Niro) che quando accoglie a casa il nipote Ernest Burkhart (Leonardo di Caprio) reduce della Grande Guerra in Europa, vede in lui, giovane e belloccio, la chiave per accedere alle ricchezze di una facoltosa famiglia Osage.
Il gioco è scoperto fin da subito, Ernest deve sposare Mollie (Lyli Gladstone), già fiaccata dalla malattia – il diabete - ucciderla e ereditare i suoi averi, come la recente tradizione sociale, protetta dalla congrega di bianchi interessati ai diritti petroliferi, impone.
Lo sterminio è lento ed efficace, le donne muoiono, i mariti incassano, si risposano e rimangono vedovi in una progressione che anche gli ingenui Osage iniziano a intendere come sospetta. Chi si impiccia muore male.
La storia di Fairfax e della famiglia Burkhart attraversa due decenni; inizialmente irrompe nella modernità senza subirne il peso, impermeabile agli eventi esterni, surfa sui marosi della Grande Depressione grazie alla ricchezza derivata dal petrolio. Le scoperte scientifiche – l'insulina - si contrappongono alle sciamanerie destinate a curare l'incurabile rischiando di scoprire il gioco al massacro del prodigo marito devoto Ernest, sempre più coinvolto dal mefistofelico zio William nel rendere la testarda e volitiva Mollie, già provata dalle misteriosi morti delle sorelle e della madre, la vittima finale della mattanza famigliare.
Quando finalmente il governo federeale si presenta e suona a casa Burkhart, nella persona di Tom White (Jesse Plemons) agente dell'FBI appena sorto sotto l'egida di J. Edgar Hooveer, l'enclave di corruzione e impunità crolla.
I duecento e rotti minuti di Killers of the flower moon raccontano di un post western con indiani e cowboy mimetizzati nelle convenzioni sociali così che i cappelli bianchi e neri non rappresentino più nulla. Solo rettili che mutano pelle al mutar delle opportunità e si adattano a sopravvivere sacrificando i più deboli, metafora embrionale del liberismo selvaggio che caratterizzerà la storia dell'America, storia di padri/padroni fondatori, popoli contro popoli che si annientano e si assimilano, strizzando l'occhio alla contemporaneità,
Sono i temi cari a Scorsese sviscerati con – troppa - calma dalla sceneggiatura di Eric Roth. Nella prima parte l'interesse per lo svolgersi della vicenda è alto, la fotografia terrea e umorale di Rodrigo Prieto riporta il fascino di una terra di colori, tradizione e folklore in piena simbiosi con i tempi moderni che gli indiani attraversano. I fatti si assommano, i volti si assomigliano, sfumano, scompaiono e altri ne appaiono, non sempre i fatti sono esposti con chiarezza e l'epica ne risente.
Ostaggio di eventi diluiti in un minutaggio difficilmente giustificabile, soprattutto nel secondo tempo il film perde inesorabilmente tensione diventando un po' didascalico e funereo. Così impegnato nella responsabilità di gestire una storia importante che non deve lasciare alcun dubbio e risolvere ogni spunto narrativo, Scorsese allenta le redini del film assommando sempre più sequenze e scene di raccordo che spiegano gli eventi ma senza renderle mai memorabili.
Anche Di Caprio e De Niro smorfieggiano e ghignano nelle rispettive maschere senza incidere nella memoria più di tanto, un po' persi nei loro ruoli. Dopo tutto la famiglia di cui fanno parte Ernest e lo zio William è antesignana di tutte le famiglie mafiose che arriveranno sugli schermi qualche decennio dopo e che Scorsese ha scolpito a imperitura memoria nella storia del cinema. La differenza è che questi personaggi sono descritti, non hanno lo spessore viscerale dei personaggi del cinema di genere che vengono connotati da ciò che fanno, come potevano essere i personaggi di Godfellas, Casinò o Taxi driver
In Killers of the flower moon manca qualcosa: l'epica, la passione o almeno la furibonda denuncia. E' un film stanco più che disilluso, un racconto di chi le ha viste – e narrate – tutte, sottomesso allo sguardo senza stupore dell'entomologo e allora sembra scandito come un radiodramma questo film, cosa che realmente è.
Nell'unica scena sorprendente, nel finale, si scopre la natura del racconto: un radiodramma appunto, narrato da uno studio con orchestra, rumoristi e attori che interpretano i personaggi tra i quali appare anche Scorsese stesso in un gustoso cammeo.
Un colpo di genio che però non cambia le sorti di un film così coeso alla natura didascalica dell'opera radiofonica da risultare smorzato nell'impatto cinematografico.
Alla fine Killers of the flower moon risultaun film più interessante che bello, incuriosisce per la storia ma delude in parte le attese e si fa carico di porre rimedio – tardivo – all'ennesimo evento vergognoso di cui è gravida la storia americana. Una denuncia che non lascia segno perchè distaccata, incapace di rendersi emozionante.
Da Scorsese è lecito aspettarsi qualcosa di più.
O forse no.
Ormai.
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