Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Costretti a lasciare le loro terre per poi essere confinati in Oklahoma, all'inizio degli anni Venti del Novecento gli indiani Osage scoprirono l'oro nero in quelle stesse terre, diventando il Lussemburgo dell'epoca, con il più alto reddito pro capite al mondo. Su quelle terre così redditizie e ricche di petrolio misero ben presto gli occhi i bianchi. Tra questi, William Hale (De Niro, ciclopico come sempre), padrino ante litteram che, in combutta con i suoi pretoriani, fa uccidere ad uno ad uno i nativi, fino a convincere il nipote frescone Ernest (DiCaprio) a sedurre e poi sposare una donna Osage dall'ingente patrimonio (Gladstone). Ma da Washington viene inviato un ispettore dell'FBI (Plemons) che vuole vederci chiaro sulle decine di morti irrisolte. Al processo, per zio e nipote arriverà la resa dei conti.
Gli ingredienti per firmare l'ennesimo capolavoro ci sarebbero tutti: una storia (vera) interessante (basata sul reportage del 2017 di David Grann); due protagonisti in stato di grazia che, senza gigioneggiare, gareggiano in bravura, contornati da interpreti all'altezza della situazione; riprese magistrali, con piani-sequenza da incanto; una colonna sonora perfettamente aderente alle immagini (firmata dal compianto Robbie Robertson, nativo americano); una possente miscela di generi (western, noir, melò, legal movie). Eppure, Killers of the Flowers Moon sembra l'espressione dell'esibizionismo virtuosistico da primo della classe di Martin Scorsese (che si ritaglia un bel cameo in sottofinale). Le tre ore e mezza di durata ripetono infatti a lungo lo stesso schema: individuazione della preda, omicidio, seppellimento (spesso grossolano) delle tracce. Il meccanismo finisce ben presto per stancare, non arrivando mai ad emozionare, neppure quando il film volge in dramma giudiziario, con un DiCaprio per il quale l'aggettivo superlativo non basta.
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