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Killers of the Flower Moon

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Killers of the Flower Moon

di Alvy
6 stelle

Impeccabile realizzazione tecnica ma lo storytelling fa acqua da tutte le parti

 

In una delle scene chiave di The Irishman, Peggy Sheeran (Anna Paquin) rivolge ripetutamente al padre Frank (Robert De Niro) una domanda tanto semplice quanto dolorosa: Why? Why? Why? Intorno all'impossibilità di rispondere chiaramente, in primis a se stessi, sul senso delle proprie azioni ruotava il capolavoro assoluto del 2019, pietra tombale su un genere, su una generazione di cineasti e su un modo di fare e di intendere il Cinema. Un manifesto funereo e cimiteriale sullo scorrere del tempo che abbandonava l'epica dei goodfellas e dei lupi di Wall Street per abbracciare la malinconia, il rimpianto, il rimorso, il lancinante senso di colpa del protagonista (e di un'America corrotta ed irredimibile) restituiti allo spettatore con una straordinaria magnitudo emozionale che accompagnava il racconto di tre decenni di vita pubblica e privata

 
Killers of The Flower Moon, opera altrettanto fluviale, ambiziosa e attesa, fallisce su tanti e diversi fronti. 
 
La struttura del racconto complica e dilata a dismisura una alquanto banale storia di avidità e di omicidio puramente privata e personale che non riesce mai a farsi specchio di una tragedia collettiva. Il montaggio di Thelma Schoonmaker, per quanto sia innegabilmente di qualità, viene appesantito da un uso discontinuo e rabberciato di differenti voice-over dei vari protagonisti (ogni paragone con Casino naufraga al solo ricordo del capolavoro del 1995) a cui il finale, sicuramente spiazzante nella sua improvvisa metatestualità, finisce per inferire un colpo mortale a dir poco incomprensibile, quasi fosse una scappatoia narrativa per una storia senza finale
 
Il volenteroso Leonardo DiCaprio, chiamato ad interpretare il protagonista Ernest Burkhart, non riesce a dare spessore tragico ad un personaggio mal scritto che, afferendo alla sfera degli antieroi di stampo più coeniano che scorsesiano, risulta deprivato di un carattere fondamentale per la sua credibilità: il tono (auto)ironico. Le sue azioni risultano contraddittorie (a dir poco inconciliabili, soprattutto nel secondo atto, l'amore per la moglie e la sottomissione allo zio), poco interessanti, sbilenche ed emozionalmente insignificanti. 
 
Robert De Niro è sicuramente efficace nell'interpretare lo zio di Ernest, William Hale, incarnazione della mediocrità del male, capace di far leva solo sulle ingenuità altrui, ma la cui parabola non riesce mai ad acquisire profondità né in quanto tale né in relazione agli altri personaggi che prova a manipolare continuamente in nome di una generica ed individualistica sete di potere.
 
Lo sguardo rivolto agli Osage complica la situazione: non basta ritrarre qualche rito e qualche visionarietà immaginifica (scene con i gufi) per restituire la fierezza identitaria di un popolo che risulta poco caratterizzato tanto come collettività quanto come individualità: a pagarne lo scotto, in tal senso, è soprattutto Mollie, interpretata dalla pur brava Lily Gladstone, la cui storia d'amore con l'Ernest di DiCaprio si appoggia più a meri colpi effettistici che ad una naturale progressione climatica
 
A stupire in negativo in Killers of The Flower Moon è, alla luce di quanto detto, una generalizzata incapacità (tanto di scrittura quanto di messa in scena) di scendere a fondo in eventi e personaggi che, a fronte dei 206 minuti di durata, restano prigionieri di un lassismo motivazionale sconcertante che non può essere giustificato in nome della "mediocrità del male". Accontentarsi del bozzettismo per ritrarre la grettezza umana non è una scelta giustificabile. 
 
Bozzettismo che sembri riguardare anche e soprattutto la direzione dell'opera che non è un western (totale assenza di qualsiasi riflessione letterale o metaforica sulla frontiera, impossibile accontentarsi di qualche bottiglia di whiskey e di scenari esotici, Taylor Sheridan, in tal senso, ha fatto scuola nel panorama contemporaneo con regie e sceneggiature straordinarie), non è un gangster movie (totale assenza di qualsiasi riflessione sul senso di lealtà ad una famiglia o ad una gerarchia ben definita e strutturata), non è un thriller (in tal senso, da scorsesiano fa male constatare quanta poca suspense ci sia attorno alle scene d'omicidio: anche in The Irishman veniva meno l'eccitazione dell'assassinio in favore di una visione elegiaca ed "impiegatizia" dell'uccisione coerentemente col tessuto dell'opera ma, in Killers of The Flower Moon, mancano sia l'epica sia l'elegia, tanto l'eccitazione quanto l'esistenzialismo melvilliano) ed è agevole definirlo film storico solo per l'ambientazione negli anni Venti del Novecento: qualsiasi intento di restituzione di un affresco storico ed antropologico viene sacrificato sull'altare di una approssimazione di cui non si capiscono le radici, data la natura di kolossal dell'intero progetto (ben 200 milioni di budget). 
 
La colonna sonora, curata dal grandissimo Robbie Robertson, morto ad agosto 2023 e alla cui memoria il film è dedicato, è altrettanto poco incisiva nello scandire ritmi e sonorità differenti e viene da rimpiangere il magistrale lavoro di Kim Allen Kluge e Kathryn Kluge nello strepitoso Silence 
 
Se un altro approdo poco convincente del percorso scorsesiano - e che, peraltro, presenta non poche similitudini, nel bene e nel male, con questa ultima fatica - come Gangs of New York scontava un certo manicheismo epidermico nella contrapposizione tra due fazioni diverse ma, in cambio, garantiva un efficace spettacolo per le masse con intere sequenze di bellezza abbacinante, in Killers of The Flower Moon viene meno persino questo lato più smaccatamente commerciale. 
 
Cosa salvare, dunque? La realizzazione tecnica che, dalle interpretazioni attoriali all'uso naturalistico della fotografia di Rodrigo Prieto passando per costumi e scenografie senza dimenticare il chirurgico uso degli effetti speciali sempre credibili, rasenta la perfezione.
 
Ma la forma senza la sostanza (e senza una precisa direzione del racconto) serve a ben poco. Quel Why? che animava The Irishman qui è del tutto eluso: why, Marty?
 
 

Lily Gladstone, Robert De Niro, Jesse Plemons

Killers of the Flower Moon (2023): Lily Gladstone, Robert De Niro, Jesse Plemons

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Ultimi commenti

  1. obyone
    di obyone

    Credevo di essere l'unico rimasto a bocca (semi) asciutta. Anche il mio pezzo (in attesa da ore di apparire nella time line) si assesta su un giudizio di sufficienza. Il film l'ho trovato poco emozionante, troppo lungo e con un fervore civile poco pronunciato.

    1. Alvy
      di Alvy

      Sì, in effetti anche io non mi capacito di questo consenso unanime tanto della critica quanto della cinefilia (attendiamo un po' di settimane per capire il responso del pubblico generalista). Mi sembra un film veramente slabbrato ed incapace di parlare al cuore e alla mente dello spettatore. Concordo sul poco fervore civile, anche perché l'assunto portato avanti da Scorsese "bianchi cattivi massacrano i nativi per avidità" è talmente generico che non trova giustificazione nei 206 minuti di durata. Spero la tua recensione venga pubblicata presto

  2. ilcausticocinefilo
    di ilcausticocinefilo

    La struttura del racconto […] dilata a dismisura una alquanto banale storia
    una storia senza finale
    ma la forma senza la sostanza (e senza una precisa direzione del racconto) serve a ben poco…

    Orpo, pensavo d’esser capitato sotto la recensione di Avatar: La via dell’acqua XD

    A parte gli scherzi, mi trovi abbastanza d’accordo circa la durata non corrispondente necessariamente ad un accuratissimo approfondimento (qualche taglio ci poteva stare, magari con qualche aggiunta invece per quanto riguarda i rapporti interpersonali: ovvero, anche a me è parso che il rapporto tra Ernest e Mollie soffra di una certa fretta, del tipo che sembra si innamorino e sposino in quattro e quattr’otto).

    Invece mi pare un pochetto esagerata la critica in merito al “bozzettismo”, alla “mediocrità del male”, in generale alla mancanza di motivazioni sviscerate dettagliatamente. Hale non fa quello che fa per “generica sete di potere” ma – come ripete più volte Ernest – per “amore del denaro”, nonché per sentimento di superiorità che trapela molto tra le righe di quello che afferma circa questi “selvaggi” che lui “adora” (già, ma come fossero praticamente delle bestie, dei cagnolini, da abbattere se proprio e se conviene), e questo – per quanto non sia chiaramente chissà che messaggio originale – fondamentalmente rappresenta metaforicamente la storia dell’America. Una storia di genocidio e furto legalizzato di risorse, una storia di sangue e ingordigia. Ergo, ci si può benissimo vedere lo specchio di una “tragedia più grande”.
    Se poi intendi dire che ci sarebbero (e ci siano) storie ben più ficcanti e riuscite in merito a diversi di questi temi, beh allora sostanzialmente posso concordare. In effetti Killers of the Flower Moon non si avvicina manco al capolavoro.

    Ad ogni modo, la colonna sonora secondo me funziona eccome come continuo controcanto, sin dall’incipit, con quel insistente e ansiogeno tamburo (https://youtu.be/fR-lyorY25Y). Pelle d’oca. E anche per questo motivo direi che la suspense s’insinua costantemente, sino a toccare vertici emotivi non indifferenti (ad es. nel confronto finale tra Mollie ed Ernest [“What did you gave me? What was in the injections?”]).

    In linea di massima quindi un buon film, lontano dalle vette di Scorsese ma d’altronde è almeno dagli anni ‘90 che non sforna un capolavoro.

    1. Alvy
      di Alvy

      Troppa differenza tra Avatar 2 e Killers of The Flower Moon per poter istituire un paragone serio: il primo è un blockbuster per le masse che assolve pienamente alla sua funzione primaria di intrattenere un pubblico più vasto possibile con uno spettacolo mai visto prima in sala, il secondo è un blockbuster d'autore secondo me persino meno riuscito di Gangs of New York il quale sacrificava un po' di approfondimento e di analisi ma, in compenso, garantiva una spettacolarizzazione hollywoodiana di alcune sequenze da lasciare a bocca aperta. In Killers of The Flower Moon non c'è neanche questo aspetto più strettamente commercia(bi)le perché è proprio lo storytelling a non ingranare, a non dare pathos, a non infondere né epicità ad una terribile escalation di violenza né tragicità emozionale alle scelte (e alle relative conseguenze) fatte dai protagonisti. Il film non funziona come saga familiare, non funziona come western (una telefonata a Taylor Sheridan andava fatta), non funziona come gangster movie. E la cosa grave, oltre alla mancata caratterizzazione degli Osage, ridotti a mero pretesto narrativo, è che finisce il film e ti sembra che manchino pezzi consistenti alla reale comprensioni di eventi e azioni. Dopo 206 minuti è, a dir poco, inaccettabile.

      Poi sono d'accordo con te che sia un film ampiamente sufficiente (anche se l'amore per il denaro mi sembra generico come movente quanto la sete di potere). Ma non condivido che Scorsese non faccia un capolavoro dagli anni Novanta: The Departed, Hugo Cabret, Silence e, soprattutto, The Irishman (che merita di stare nella top5 dei migliori film del regista) sono capolavori immensi

    2. ilcausticocinefilo
      di ilcausticocinefilo

      Ma infatti quella su Avatar, ribadisco, era solo una battuta.
      Poi, eh-ehm: che Scorsese - sottolineo, Scorsese - abbia qualcosa da imparare da Sheridan la vedo dura. :)

      E circa il discorso capolavori a mio modo di vedere nessuno di quelli che hai elencato lo è. Preparati che ora metterò nero su bianco un’eresia: Infernal Affairs è superiore a The Departed se non sul fronte recitazione di certo in quanto a stringatezza e tensione pur narrando la stessa storia; il remake rimane ottimo, grandi attori, regia solida, qualche bella trovata non presente nell’originale ma, insomma, non c’ho visto quel che in più che permetta di gridare al capolavoro.

      A maggior ragione fatico a vederci un capolavoro in Hugo Cabret: intrigante il confronto col cinema delle origini, fotografia satura fantastica, un clima appunto da cinema d’altri tempi, una sceneggiatura riuscita, ma di nuovo niente di talmente rilevante da doverlo inserire negli annali del cinema.

      The Irishman – come noterai dalla mia recensione – m’è garbato, ovvio, ma non mi sembra arrivi anche solo a sfiorare la qualità di grandissimi capi d’opera tipo Godfellas e Casino: pur concordando sulla tua visione in merito allo stesso – “fine di un’epoca”, i rimpianti, ecc. ecc. – rimango dell’idea che non vada oltre l’ottimo livello, che di per sé è comunque già molto. E’ un signor film, questo sì. Ma non mi ha lasciato un’impressione tale – a differenza dei capolavori del regista – da vederci chissà che miracolo.

      Silence è l’unico che non ho visto: le tematiche religiose o para-religiose o presunte religiose mi respingono come poche altre, infatti un altro film che non ho visto di Scorsese è proprio L’ultima tentazione di Cristo (per non parlare di Kundun). Eh, lo so. So che mi toccherà colmare la lacuna, prima o poi, epperò per intanto, va da sé, non m’esprimo…

    3. Alvy
      di Alvy

      Forse su The Departed e Hugo Cabret posso darti ragione ma su The Irishman proprio no ahahah. Ma vabbè, de gustibus...

      Secondo me hai tutte le carte in regola per apprezzare il "trittico religioso" di Scorsese: non sono film perfetti ma sono veramente riusciti. Anche perché le riflessioni sulla grazia, sulla colpa e sulla possibilità di redimersi (tematiche dunque 'spirituraliste', se mi passi l'approssimazione) Scorsese ogni tanto le piazza spesso nelle sue opere, spesso declinate anche in maniera "laica" (come nel maestoso Al di là della vita). Fammi sapere poi ;)

    4. ilcausticocinefilo
      di ilcausticocinefilo

      Mi cimenterò nell'impresa, con calma però. Dopotutto, uno che è riuscito a sorbirsi 11 stagioni complete di The Walking Dead, beh, può tutto XD

  3. Ethan01
    di Ethan01

    Pienamente d'accordo con la tua recensione, @Alvy. Sono rimasto piuttosto deluso da questo film. Come anche da Di Caprio, le cui mossette ed espressioni ingrugnite non bastano a conferire reale spessore al personaggio. De Niro è il migliore, ma rifà sé stesso; Brendan Fraser è fastidiosamente sopra le righe, e menomale che compare poco. Il sottofinale, con la trasmissione in cui viene narrata la fine della storia in maniera sarcastica, mi è sembrato gratuito e piuttosto irritante. Tutti (o quasi) inneggiano al capolavoro, ma io dico: stiamo parlando dello stesso film?

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