Regia di Roland Joffé vedi scheda film
Vatel, ovvero della grandeur. Grandeur di una corte ammuffita e scheletrita nell’esibizione della pompa; grandeur di un personaggio borghese (un cuoco, meglio: un artista della cucina) più imponente, vanitoso, esigente dei signori che serve, materializzato dalle forme ormai infinite di Gérard Depardieu; grandeur di un impianto produttivo (anglofrancese) smisurato e di un regista che non contempla certo, tra le sue doti, il senso della misura. E, purtroppo, nemmeno quella della capacità di affabulazione. Roland Joffé, una volta, azzeccò un film, “Urla del silenzio”, che quanto a umori e passioni corrispondeva perfettamente allo spirito del tempo. Poi si è subito immaginato come nuovo David Lean (del quale, al massimo, possiede il tardo accademismo) e si è rivolto a saghe e antieroi storici con confuso dispendio. Questo “Vatel” (storia di un festino gastronomico protrattosi per tre giorni e tre notti nel castello del Principe di Condé che voleva compiacere il Re Sole e la sua corte) non fa eccezione; Dominato dal sanguigno protagonista (il cuoco), è un film senza sangue; percorso di passioni amorose e politiche, è stranamente freddo. L’alchimia tra i due protagonisti (Depardieu e la Thurman) non scatta, e negli occhi, di tanto fasto, finisce solo per restare un gruppo d’attori spaesati in abiti settecenteschi (su tutti, Tim Roth che, con parruccone e marsina, pare a un ballo in maschera).
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