Regia di Alison MacLean vedi scheda film
Ancora un ritratto di marginali, ragazzi perduti e incoscienti che vivono al limite, trascorrendo le giornate sotto l'effetto di ogni tipo di droga, senza futuro, senza obiettivi, completamenti persi/presi nel/dal loro mondo. Tipico cinema indipendente, a tratti anche brillante e sincero, soprattutto nella prima parte la più bella e riuscita, ma piuttosto convenzionale e risaputo nelle tematiche e negli sviluppi. Alison Maclean, regista neozalendese, segue le orme della connazionale Jane Campion e per il suo debutto nel lungometraggio, dopo tanti videoclip per Natalie Imbruglia, racconta la vita di uno sbandato, Fuckhead (un nome che dice già tutto, dato che significa cazzone), attraverso uno stile personale e piuttosto originale, anche se a tratti dispersivo e non sempre coerente. Diversi e disordinati capitoletti che prendono il nome da altri sbandati o dalle città che il protagonista visita nel suo peregrinare senza meta, alla ricerca di un lavoro e soprattutto della sua amata Michelle (una Samantha Morton abituata ai ruoli estremi e tragici) ragazza più fatta di lui (impressionante la sequenza in cui si fa di primo mattino, mentre alla tv mandano i cartoni animati), pronta a scappare con un altro uomo (piccola apparizione di Will Patton), costretta dalle circostanze anche ad abortire. Apprezzabile l'ironia con cui la regista alleggerisce il suo film (molto divertente ad esempio tutta la parte ambientata in un pronto soccorso davvero sui generis, dove spicca l'interpretazione del celebre comico americano Jack Black, occasionale compagno di (dis)avventura del protagonista), grande la colonna sonora, ricca di celebri successi rock (non a caso il titolo allude ad un passo di "Heroin", inno alla droga di Lou Reed), notevole la performance di Billy Crudup, perfetto nei panni del protagonista costantemente fatto, riuscita l'idea del road movie, anche e soprattutto esistenziale, una sorta di via crucis che porterà Fuckhead attraverso diverse tappe e molti inevitabili dolori tra cui la morte di Michelle e di un carissimo amico interpretato da un Denis Leary molto efficace alla sua redenzione e salvezza. Peccato però che tutta la parte della riabilitazione del protagonista, impegnato in un centro per malati di mente, risulti macchinosa e noiosetta, troppo lunga e dispersiva, sembra quasi appiccicata al resto del film tanto per allungare il brodo, ma senza una reale ragione d'essere. Non si capisce così ad esempio l'utilità di camei come quelli di Dennis Hopper e Holly Hunter alle prese con personaggi poco funzionali alla storia, quasi macchiettistici, soprattutto la Hunter, senza parlare della gratuita e banale vicenda che ha per protagonista la famiglia mennonita, spiata dalla finestra. E anche le sequenze allucinogene (su tutte quella al drive in cimitero) non riescono mai a coinvolgere completamente. Un film piuttosto freddo e monotono, in cui si avverte l'affetto e la partecipazione dell'autrice per i suoi personaggi, ma si avverte anche l'esigenza di volere essere a tutti i costi poetico e sincero; alla lunga purtroppo però tutto risulta faticoso, ripetitivo e piuttosto accademico, comunque irrisolto, e i singoli episodi non riescono a completarsi in un ritratto complessivo convincente, intenso, umano.
Voto: 6
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