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L'esca

Regia di Bertrand Tavernier vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'esca

di hupp2000
9 stelle

Ennesima perla nella filmografia di Bertrand Tavernier, uno degli autori più ecclettici del cinema d'Oltralpe. Orso d'oro alla Berlinale del 1995.

“La storia raccontata in questo film si ispira a fatti realmente accaduti a Parigi negli anni ’80.” Così recita la scritta introduttiva, precisando poi che l’azione è stata trasferita negli anni ’90, cambiando i nomi delle persone coinvolte, tanto è vero che, in una delle scene iniziali, i tre giovani protagonisti stanno guardando per l’ennesima volta “Scarface” di Brian de Palma del 1983 su VHS. Effettivamente, si tratta forse del cult-movie più emblematico del famigerato “edonismo reaganiano”, il decennio del riflusso per eccellenza dopo il coinvolgimento sociale dei giovani negli anni ’60 e l’ondata di riforme civili conquistate negli anni ’70. Ho avuto la sensazione che, posticipando ulteriormente gli eventi, Bertrand Tavernier abbia voluto lanciare un grido d’allarme sulla deriva cui poteva condurre l’abbandono di qualsivoglia impegno politico o semplice desiderio di coesione sociale da parte delle giovani generazioni. Le malefatte perpetrate dai criminali in erba Eric, Bruno e Nathalie sono infatti efferate e vengono compiute in uno stato di completa inconsapevolezza delle conseguenze cui inevitabilmente porteranno. Sono bambini viziati e non molto intelligenti, si sentono circondati da una Parigi opulenta nella quale il denaro sembra circolare con estrema facilità e pretendono la loro fetta di torta. Di qui l’idea, brutta quanto ingenua, di utilizzare la bella e avvenente Nathalie come esca per attirare ricchi professionisti da depredare in vista di grossi guadagni che apriranno loro la via di un’esistenza comoda e agiata da vivere possibilmente in quegli Stati Uniti, sede e simbolo di una società dove tutto funziona e tutto è permesso, a differenza di quanto avviene nella vecchia e ormai sorpassata Europa.

 

Bertrand Tavernier dimostra ancora una volta di trovarsi a suo agio in ogni genere cinematografico, realizzando un film serrato e palpitante, a metà strada tra “gangster movie” e analisi socio-psicologica. I personaggi che mette in scena, vittime e carnefici, sono figure deboli e soprattutto superficiali, obnubilate dal denaro e da uno status sociale raggiunto o sognato. L’eventuale accusa di rendere simpatici allo spettatore tre delinquenti che non meritano la minima attenuante è secondo me vanificata dalla freddezza e perfino dalla leggerezza con cui vengono compiuti gli atti criminali. I due maschi uccidono e torturano senza partecipazione emotiva, talvolta esitando, come se fossero portati a colpire non per scelta ma perché costretti dalle circostanze. Non meno irritante appare il comportamento di Nathalie, che non assiste mai alle violenze, rinchiudendosi in un’altra stanza dove si isola ascoltando musica in cuffia. Accusa i suoi compari di esagerare, ma è sempre pronta a ricominciare. Quando il cerchio si chiude con l’arresto del trio, lo spettatore ha smesso da un pezzo di provare empatia per i colpevoli e tira un sano sospiro di sollievo.

 

Nel difficile e inquietante ruolo di Nathalie, la bellissima attrice belga Marie Gillain, rubando la scena ai suoi due comprimari, catalizza l’attenzione dall’inizio alla fine. La sua ingenua nonchalance nelle situazioni più abiette è una perfetta materializzazione della “banalità del male”. Tra gli altri interpreti va citata la partecipazione del bravissimo Richard Berry, ultima vittima della vicenda, bersaglio quasi rassegnato di fronte all’ottusità dei suoi carnefici, che tenta un disperato approccio dialogico con un interlocutore impermeabile a qualsiasi forma di razionalità. Nel ruolo del capo della polizia appare nei minuti finali Philippe Torreton, sempre impeccabile e già diretto nel 1992 in “L.627” dello stesso Bertrand Tavernier, per il quale reciterà ancora, questa volta in veste di protagonista, nell’altrettanto riuscito “Capitaine Conan” (1996).

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