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Dillinger è morto

Regia di Marco Ferreri vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dillinger è morto

di omero sala
8 stelle

 

Risultato immagini per dillinger è morto

 

È difficile narrare un film nel quale non accade niente, dove l'assenza di fatti diventa la sostanza della narrazione e il nulla è l’elemento fondante di tutto il racconto; dove il senso e il messaggio sono dati dai silenzi; dove la macchina da presa, quasi come in un ininterrotto piano-sequenza, segue ossessivamente il protagonista che non parla e non agisce, ma improvvisa e si muove annoiato senza scopo in una notte vuota e monotona, passata tra i fornelli e il l tavolo della cucina, sul divano, davanti alla tv, in giro per gli spazi tortuosi di un appartamento stipato di mobili eterogenei come appaiono quelli accumulati nel corso di una lunga permanenza. 

 

Trama dettagliata (SPOILER)

 

È una sera d'estate. Siamo a Roma.

Glauco, designer industriale in una fabbrica di maschere antigas, torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro. 

È un uomo di mezza età dall’aria tranquilla; ha l’aspetto distinto di una persona ben integrata; si presenta sicuro di sé, austero, realizzato, istruito: che sia istruito, lo si capisce dal fatto che è la cavia distratta delle letture impegnate che il suo collega scrive sul senso della vita (lunghi sproloqui ispirati a Marcuse sulla società dei consumi, l'alienazione e la massificazione, le maschere e l'uomo a una dimensione); che sia benestante lo si capisce dall’abbigliamento, dal portamento, dall’automobile, dalla casa signorile (che in realtà è l’appartamento romano di Scihfano, prestato a Ferreri dal pittore di cui si vedono alcuni quadri alle pareti).

Glauco è un abitudinario: si mette comodo, accende la televisione su un programma a caso, gironzola per l’appartamento con l’aria annoiata (come un estraneo), passa in camera a salutare la graziosa moglie che ha mal di testa e non ha voglia di alzarsi.   

Ha fame, ma non lo attira il piatto freddo lasciato sul tavolo della sala per lui. Ripone la cena fredda in frigorifero (la cucina è quella della villa di Velletri di Tognazzi, altro amico di Ferreri); accende la radio, sbircia un manuale di ricette, gli cade l’occhio su una piatto curioso e decide di prepararselo per cena: recupera gli ingredienti necessari e, in cerca di una spezia, fruga sugli scaffali, esplora le mensole, sposta bottiglie e vasetti, apre pensili e credenze. 

Intanto alla radio passano canzoni di Patty Pravo e Dalla.

In un ripostiglio, una specie di armadio a muro traboccante di ogni cosa (vecchie riviste impilate, scatole, borsoni e valigie vuote, stracci e coperte accatastate) trova un pacchetto accuratamente avvolto in pagine di giornale e legato con dello spago. Lo porta sul tavolo della cucina, incuriosito. E mentre la cena è sul fuoco, apre delicatamente il cartoccio avvolto nel giornale (un vecchio quotidiano che riporta a piena pagina la notizia dell’uccisione di un gangster di Chicago, il famoso John Dillinger, caduto in un’imboscata della polizia avvenuta fuori di una sala cinematografica il 23 luglio 1934).

Nel pacchetto, accuratamente incartata, trova una vecchia pistola arrugginita.

La posa sul tavolo e torna ai fornelli. Continua a cucinare. 

Il suo sguardo torna alla pistola. Decide di prenderla in considerazione: la gira e la rigira, comincia a smontarla, lubrificandola con l’olio di cucina. Ha qualche difficoltà, non disponendo degli attrezzi necessari. Torna in camera a cercare una limetta per le unghie: la moglie gli chiede due pastiglie per dormire. Va dalla cameriera: bussa ed entra. La cameriera, che non lo ha sentito, sta ballando seminuda davanti allo specchio, al ritmo di una canzone di Dino (di cui ha un poster appeso alla parete ed una foto sulla specchiera).  Glauco torna educatamente alla porta, bussa di nuovo, più forte, torna nella stanza: la cameriera si è infilata sotto le lenzuola. Glauco chiede in prestito una limetta, la cameriera gli indica dov’è, lui la prende ed esce.

Finisce di cucinare, si mette a tavola, trascina il mobiletto col piccolo televisore nella zona pranzo, si siede e comincia a mangiare, con gusto. Squilla il telefono. Va a rispondere: qualcuno vuole parlare con la cameriera. Lui la chiama e si rimette a tavola. Ascolta distrattamente la conversazione; ma è più attento al suo piatto e a quello che trasmettono in tv. 

Finita la cena, sgombera il tavolo, prepara un proiettore e carica vecchi filmini delle vacanze (girati dalla moglie in Spagna, o al mare, o al luna park). Nel frattempo finisce di pulire la pistola e la rimonta. Pare soddisfatto: impugnando l’arma, gioca col fascio di luce e con le immagini del proiettore; fa interagire la sua ombra con i filmati: nuota, abbraccia le immagini inafferrabili, mima sparatorie e recita anche una scena di suicidio.

Chiusa la pantomima, riesamina la pistola e decide di dipingerla di rosso, con una bomboletta. (La sua estrosa decisione, a dire il vero un po’ insensata, fa nascere il sospetto che dietro la sua imperturbabilità nasconda una traccia di follia).

Torna in camera. La moglie dorme profondamente. Lui non ha sonno e gioca col mangiacassette (che fa molto anni ’70) registrando il respiro e i battiti cardiaci della donna. Poi giocherella sul suo corpo con un serpentello giocattolo.

Esce. Torna alla pistola per decorarla anacronisticamente con dei pois bianchi, come un gingillo. Questa strana attrazione, come un rapporto morboso con l’oggetto, consolida l’idea che il compassato professionista non sia proprio del tutto normale.

Va in terrazza a prendere il fresco, piluccando la polpa di un cocomero. Poi, col cocomero, va nella stanza della cameriera, che si presta a giochetti erotici con lui. Ma tanto lei appare maliziosa, quanto lui distratto, quasi annoiato.

Torna a vagare per casa con la pistola dipinta.

Trova dei proiettili in un sacchetto, fra vecchie monete. Carica la pistola, meticolosamente. Gironzola ancora per casa mimando pistolettate in giro.

Va in camera della moglie, accende la radio, le mette i cuscini sulla testa e - senza rancore - le spara tre colpi. 

Si riveste, raccoglie dei gioielli, rifà il giro delle varie stanze, prepara una borsa, guarda le sue cose, esce, sale in macchina e se ne va al mare (a Porto Venere). 

Fa un bagno e arriva a nuoto nei pressi di uno yacht ancorato nella baia. Assiste a una sepoltura in mare. È morto il cuoco. Glauco sale sull’imbarcazione e chiede di poter prender il posto del cuoco defunto. 

Lo scafo, al tramonto, parte per Haiti. 

L’uomo che non c’era va verso un sole finto, diretto all’isola che non c’è.

 

Il senso del film

 

Il messaggio inquietante che trasmette il film è inequivocabile.

Ci dice che la quotidianità e la normalità sono destabilizzanti e che l’inerzia della routine e la solitudine azzerano i sentimenti, come un cortocircuito, e nutrono l’insoddisfazione che diventa insofferenza e può deflagrare nella gelida follia. 

Ferreri, anarchico e ateo fino al midollo, racconta questo con una efficacia sottilmente corrosiva, con un nichilismo profondamente atroce, con un cinismo gelido, amarissimo, sotterraneo, impercettibile, che sommessamente ci pervade di un malessere straziante.

I toni attutiti del racconto, meticoloso e monotono, senza proclami aggressivi, senza isterie distruttive, senza esplosioni anarchiche, sono - proprio perché minimalisti - più potenti nel rendere freddamente il panico profondo e inespresso dell’uomo contemporaneo davanti alla morte, la paura davanti all’amore, il dolore che accompagna la vita, la rabbia negativa e insensata. 

La sofferenza esistenziale è spesso sorda e muta, e non sa trovare ascolto e sollievo; la disperazione dilaga sotto traccia, soffocata, e si snoda in percorsi placidi; l’angoscia si intigna e si rintana nell’alienazione; la rabbia lacera chi la cova, prima di ferire altri.

La vita non ha senso. Come non ha senso tutto quello che la accompagna: il successo, il tempo, le relazioni, la sgretolata alleanza uomo-donna, il sesso, il cibo, la morte.

L’homo sapiens - smarrito ogni ideale etico, religioso, esistenziale - si lascia trascinare, senza scopo, dal caso; l’homo faber - perso il controllo delle sue creazioni - si lascia condurre dagli oggetti inanimati; l’umanità (sia nel senso di complesso degli uomini che in quello di solidarietà) è senza anima, alla deriva.

 

Michel Piccoli

Dillinger è morto (1969): Michel Piccoli

 

Michel Piccoli

 

Il film è tutto concentrato sulla figura del protagonista, meravigliosamente impersonato da Michel Piccoli che, a dire il vero, non ha fatto altro che muoversi con la sua naturale compostezza, in una normalità contegnosa ed elegante, col suo aplomb imperturbabile.

La macchina da presa rimane incollata su di lui per tutto il film, ma lui non si scompone mai: è distaccato quando assiste al test delle maschere antigas sul lavoro (e un collaboratore gli sussurra all’orecchio che “per sopravvivere è necessario portare una maschera”!), sereno quando gironzola per casa, freddamente concentrato quando restaura e dipinge la pistola, distratto quando cucina e mangia, indifferente quando tenta un approccio con la cameriere (Annie Girardot), freddo quando spara alla moglie. Tutte azioni equivalenti per la sua placida, e forse inconsapevole, atarassia. Un ristagno esistenziale.

 

Spesso l’uomo cerca nella noia la fuga dalla realtà; negli oggetti inanimati vede il vuoto che ha dentro; per fingersi vivo deve immergersi nella costruzioni mentali rappresentate da vecchi filmati degli anni sbiaditi. E può trovare la illusoria molla del cambiamento fra le cianfrusaglie stipate in fondo a un ripostiglio. O in un gesto di rottura, uno qualunque. Pur sapendo che una fuga è impossibile.

 

 

 

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