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Terrifier 2

Regia di Damien Leone vedi scheda film

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La recensione su Terrifier 2

di scapigliato
9 stelle

Nell’epoca del prestige horror dove si lodano titoli como It Follows (David Robert Mitchell, 2014) e The Babadook (Jennifer Kent, 2014 ) il cinema di Damien Leone è una manna dal cielo. Quando era in voga il torture porn si credeva di essere arrivati al culmine della pornografia della violenza – che, per inteso, non è esclusiva solo del genere horror – nessuno aveva ancora visto di cosa fosse capace Damien Leone.

Dopo essere stato tra i primi ad applaudire i primi due episodi All Hallows’ Eve (2013) e Terrifier (2018), non posso che ripetermi anche dopo la visione di questo secondo/terzo capitolo delle orribili gesta di Art the Clown, l’unica vera grande maschera del terrore moderna nata dopo Ghostface di Scream (Wes Craven, 1996) e il famelico e libidinoso Creeper di Jeepers Creepers (Victor Salva, 2001). Un po’ in debito con Freddy Kruger per ironia e sadismo, un po’ figlio di Ghostface come fenomeno pop intradiegetico, Art the Clown, come già dicevo commentando Terrifier, non è solo maschera, ma anche corpo. In Terrifier 2 la maschera viene pluriomaggiata in un continuo e molteplice gioco di specchi: Art che finge di essere un manichino o una maschera di Halloween, Art circondato da altre maschere di Halloween, Art che riemerge dai disegni del padre dei due giovani protagonisti, Art che appare al notiziario come il serial killer della contea di Miles, Art che si prepara al massacro finale in un vecchio tunnel dell’orrore pieno di mostri di plastica.

Il corpo torna. Inizialmente nudo, esattamente come nel capitolo precedente, e poco dopo, rivestito dei panni nuovi dell’imperatore, torna per strada e torna a sporcarsi di sangue. Torna anche il corpo di David Howard Thornton, perfetto per incarnare il magro e dinoccolato pagliaccio assassino che con una mimica azzeccata, tra il comico e il perturbante, sa rubare la scena e catalizzare l’attenzione dello spettatore.

Per il cinema di Damien Leone si può davvero spendere l’aggettivo pornografico. Nel suo cinema si supera davvero la soglia del visibile e l’horror carnale di Leone, o meglio “viscerale”, diventa pornografia. I corpi vengono aperti, squartati, scoperchiati, vivisezionati con tale veemenza che, oltre a puntare il dito su un altro aspetto estetico dei suoi film, ovvero il sadismo esasperato, crudele e nichilista, fine a ste stesso,  Leone punta tutto sulla percezione sensibile del dolore. Complice il montaggio e lo sguardo registico, le mattanze di Art the Clown risultano realistiche, vivide, stomachevoli e generano quel senso di disturbo, disagio e raccapriccio che solo la realtà può trasmetterci attraverso l’esperienza sensibile. Infatti, nei film di Damien Leone ho rintracciato le uniche scene capaci di sortire in me, stomaco forte, un leggero senso di nausea, cercando la fuga dello sguardo dallo schermo.

La cattiveria con cui infligge dolore non ha precedenti e non ha origini diegetiche. Art the Clown si abbatte sui corpi delle sue vittime senza ritegno, senza pudore, incoscientemente, come trasportato da una necessità atavica, primitiva, che sfocia nella brama tanto alimentare come sessuale attraverso lo scherzo, il gioco, il trick or treat. Sferra colpi su colpi, cambiando spesso e rapidamente arma, da un bisturi a un martello a una mazza chiodata a un paio di forbici, tutto ciò che ha intorno si trasforma in oggetto mortale e viene utilizzato contro le vittime con uno spirito, una tensione, un trasporto che va oltre il sadismo e sconfina nell’incomprensibile, perché confinare queste efferatezze nella confort zone della follia è riduttivo.

Art the Clown non solo uccide, ma massacra letteralmente i corpi delle sue vittime e senza voler a tutti i costi azzardare letture troppo alte, potrei anche pensare ad una volontà metadiscorsiva di accanirsi sulle vittime in quanto personaggi di un film horror. Da diversi decenni infatti, la carne da macello di cui abbondano i film horror sembra essere diventata insopportabile per stupidità e prevedibilità, e Art la massacra. Art punisce i personaggi dei film horror in quanto tali e in quanto stupidi. Stupidi perché credono di farla franca. Stupidi perché non scappano davanti all’orrore. Stupidi perché sono capitati in un film horror invece che altrove. Non c’è moralismo, non c’è punizione puritana e non c’è nemmeno vocazione al caos immotivato nei massacri di Art the Clown. I personaggi non vengono uccisi per aver fatto sesso o per aver fumato una canna o per aver saltato messa o per aver trasgredito qualche regola della morale comune e imperante. Anche se strappa a coltellate il pene di Charlie McElveen, non lo fa perché ha fatto sesso con la sua ragazza – anche perché ciò non è accaduto – ma piuttosto glielo strappa convulsamente perché il suo personaggio, Jeff, era connotato sessualmente fin dalla sue entrata in scena: bello, piacente, voglioso. Ed è quindi con ciò che il personaggio simbolizza, cioè il suo pene, che Art se la prende. Siamo quindi sempre all’interno del discorso horror: il genere parla di se stesso, si autoalimenta e si automassacra.

Questo capitolo, però, può anche essere criticato per il metraggio – si parla di 138 minuti – e per l’eccessiva esposizione della violenza, ma va anche detto che con Terrifier 2 Leone ha forse voluto costruire un’epica splatter per la quale è necessaria una certa lunghezza del racconto e per la quale bisogna saper inventare anche passaggi e inserti narrativi che arricchiscano l’universo visivo e tematico del film. E qui entrano in gioco gli incubi della protagonista, l’amazzone Sienna interpretata da Lauren LaVera, che il pagliaccio Art invade come faceva a suo tempo Freddy Krueger con Heather Langenkamp. Non solo, c’è anche un côtéfantasy – per esempio il vestito da guerriera alata della protagonista, cosplayer dura e pura grazie all’eredità fumettistica del padre, da sfoggiare alla festa di Halloween – che quando si intromette all’interno del racconto puramente terrorifico ne smorza i toni, ne rallenta i ritmi e ne allunga ovviamente la storia, contribuendo ad un’operazione di straniamento che non ci aspettiamo e che non si può negare che cozzi con la linea narrativa principale e con tutto l’immaginario horror evocato/evocabile del film. Ma al tempo stesso dona al film quel tocco weird che non c’era nei primi due capitoli, totalmente fedeli all’estetica orrorifica più radicale, anche se condita con umorismo straniante e slapstick disturbanti.

Il risultato è un film d’autore ambizioso che interroga il genere horror attraverso l’esasperazione dei suoi dispostivi, intercettando il (dis)gusto dello spettatore e finanche la sua disapprovazione quando entra in gioco non solo il sovrannaturale – dopotutto Art the Clown è un killer metafisico alla Michael Myers – ma anche uno scampolo di fantasy e di fantastico propriamente detto con altri mondi, altri metaversi, altriversi in cui cadere, sparire, annichilirsi, ma anche risorgere.

Nonostante il prodotto non sia mainstream, e l’orgia di produttori e co-produttori ne svelino la provenienza più fandom che hollywoodiana, è ugualmente confezionato con maestria e professionalità, soprattutto fotografia e montaggio – quest’ultimo ad opera di Damien Leone, anche sceneggiatore ed effettista – che, si sa, sono anche l’anima estetica, poetica e politica di un film insieme all’iconografia evocata dalla scenografia e dalla set decoration, anche questa azzeccata e riuscita. Si notano giusto alcuni scivoloni tecnici in alcuni raccordi e in alcune scene semi-professionali, soprattutto quelle domestiche con i giovani attori. Per il resto siamo di fronte, nuovamente, ad un’opera di grande impatto visivo e culturale che ridà dignità al genere stesso, senza per questo circoscrivere l’horror a film di tale radicalità e pornografia visiva.

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