Regia di Márta Mészáros vedi scheda film
Era il 1969 in quell’angolo di mondo (che poi tanto angolo non è trattandosi di Budapest), la donna è sempre lì, angelo del focolare, bisogna che un marito muoia perché tenti un riscatto.
L’urna con le ceneri del celebre economista arriva in aeroporto, la vedova in gramaglie (Mari Töröcsik), veletta sul viso, stivaletti e tailleur di buona sartoria, sguardo impenetrabile e passo deciso, va a ritirarla.
Al suo fianco una donna anziana, fazzoletto nero in testa e abito d’altri tempi lungo alle caviglie, la madre del morto.
Trotterellano verso l’aereo e poi all’auto di rappresentanza che le porterà al cimitero, la ripresa a mezzo busto di profilo è un capolavoro di ritmo sincopato, la musica scandisce il movimento simmetrico delle due donne in nero, il bianco aeroporto oltre cortina fa da sfondo. Dalla scaletta scende il funzionario mesto e contrito con la cassetta in mano e l’emozione culmina nell’ufficialità del rito.
Dalla lapide che il becchino sta inchiodando apprendiamo che Tibor Balassa era del ’22 e ora siamo nel ’69, la vedova non sembra particolarmente affranta per la sorte ingiusta e ria del giovane e talentuoso marito, vittima di chissà quale tragico incidente su cui neanche una parola.
Nei primi cinque minuti Marta Mészáros dà le coordinate fondamentali, il seguito verrà di conseguenza.
“Cinema lirico e realista” è stato definito, i moti dell’animo si stampano sul viso, nei gesti, le parole sono di troppo.
Antonioni era un nume tutelare per la giovane regista, stesso “sguardo vorace” che si appropria con gli occhi delle cose, va oltre le cose con la mente ma allo sguardo ritorna per declinare le sue avventure, tante e sempre diverse, spazi, territori, campagna e città.
Era il 1969 in quell’angolo di mondo (che poi tanto angolo non è trattandosi di Budapest), la donna è sempre lì, angelo del focolare, bisogna che un marito muoia perché tenti un riscatto.
La giovane vedova, all’indomani del funerale, convoca nello studio del marito tappezzato di libri gli illustri colleghi. Dice loro di prenderne per ricordo, il decano fa il suo elogio funebre poi tutti sciamano via compunti. Lei è poco più che un complemento d’arredo.
Quindi chiude porte e finestre, ingoia qualche pillola e tenta di dormire.
Con garbo impareggiabile Mészáros scolpisce la seconda eroina del suo cinema e dice la sua:
“Gli uomini mi preoccupano e ne tengo le distanze perché sembra che la loro spinta principale, la motivazione più importante per loro, sia quella di avere potere sulle donne. Odio il potere, qualsiasi tipo di potere. Ma l'uomo è guidato dalla fame di potere”.
Purtroppo il telefono suona e il campanello alla porta è insistente, c’è la suocera in nero, presenza incombente ripresa di spalle, solo la testa in un angolo dello schermo, immobile e muta, ci sono due figli, e se il più piccolo è affettuoso, spegne il mangiadischi con quella musica fastidiosa che la madre non sopporta, l’altro (Lajos Balázsovits) è la copia conforme del padre.
Vive fuori di casa con Kati (Kati Kovács), la compagna, non andava d’accordo con il padre (somigliavano troppo) ma adesso si precipita a reclamare il suo e sistemare la madre.
Lo fa con il tono mellifluo e bonario degli ipocriti, mette la ragazza alle costole della donna che avrebbe invece bisogno di pace e solitudine, la fa passare per nevrotica e la trascina nella casa di campagna dove Kati la sorveglia come un mastino, arrivando a metterla sotto chiave.
Edit, vedova di un marito da cui non ha mai avuto il coraggio di divorziare, non dà mai in escandescenze, beve qualche Tokaji di troppo, la sua ribellione è totale e sorda, di quelle più irriducibili e per questo più contagiose.
“So quello che sono, dice alla futura nuora, non ho avuto il coraggio di divorziare, ma tu…” L’analisi che fa a questo punto scopre tutte le carte, riuscendo a mettere la ragazza di fronte a sé stessa.
“Vuoi sposare Istvan perché sei andata a letto con lui, perché è intelligente, perché è bello. Ma io so che è esattamente come suo padre”.
C’è fra donne un livello di comunicazione sotterranea che pochi nell’altra metà del cielo capiscono, e quando Istvan corre dietro alla fidanzata che ha fatto la valigia e sta andando per i fatti suoi tiriamo un sospiro di sollievo, quel ceffone e “ Rimani, lo esigo” danno ragione alla madre.
Kati ha capito e sa cosa fare, è giovane, è il 1969, le cose possono andare diversamente.
Un gruppo vociante di ragazzi sciama sullo schermo nel finale mentre Kati si allontana sorridendo, fanno un girotondo e poi corrono felici nei campi lungo una prospettiva infinita segnata da una macchia di alberi rigogliosi.
Il bianco e nero trionfa, i cambiamenti sociali che seguirono il regno del terrore del primo ministro Mátyás Rákosi “il miglior discepolo ungherese di Stalin “ e la rivoluzione del 1956 cominciano a farsi sentire, ma il Muro ha ancora vent’anni di vita, troppi, e se ne vedranno delle belle.
La consegna all'oblio della madre vedova che Istvan, degno erede del padre, vorrebbe instaurare è, fuor di metafora, la stessa che il Paese subì dopo decenni di disordini politici, la coscienza nazionale calpestata che reclamava i suoi diritti .
Sarà necessario allora rivolgersi al passato, un modo per capire ricostruendo memorie con il mezzo più semplice, il diario. Mészáros ne scriverà tre,.
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