Febbraio è il mese di Park Chan-wook. Decision to leave è un film che difficilmente lascia indifferenti, a partire dalla sua splendida colonna sonora che tutt’ora riecheggia nella mia testa.
Questa volta il regista sudcoreano decide di costruire un lungometraggio diverso dal solito, in cui la violenza e il sesso sono molto più contenuti del solito nel raccontare un amore impossibile tra un detective coreano (Hae-joon) e una sospettata di omicidio di origini cinesi (Seo-rae). Il fulcro del film non è infatti la componente più poliziesca e “whodunit” (che nella seconda metà del film si perde un po’ per strada), ma nel “In the mood for love” tra due persone che una volta incontrate tramite la fatalità del caso (un omicidio), faticheranno a distaccarsi sempre di più per via della loro comune e fatale attrazione.
L’approccio di Park Chan-wook al susseguirsi di questo rapporto tra preda e cacciatore (ruoli sempre alternati tra i due amanti) segue un’impostazione molto hitchcockiana alla La donna che visse due volte e La finestra sul cortile, quindi un thriller completamente psicologico che indaga nuovamente le contraddizioni della natura umana – tema cardine della poetica di Park – dinanzi a un sentimento così potente e fatale come l’amore.
Il detective, infatti, finirà con l’innamorarsi di una sospettata e un interrogatorio si trasformerà in un goffo corteggiamento, portando lo stesso protagonista a rivalutare il suo monotono matrimonio e il suo stesso codice morale come custode della legge. Il regista coreano ci catapulta così nuovamente in un vorticoso thriller contorto, ambiguo e oscuro, ma antitetico al thriller erotico e violento di Mademouisille, in cui l’amore platonico e la tecnologia della nostra contemporaneità la fanno da padrone nel tratteggiare un lungometraggio che decostruisce il thriller poliziesco per concentrarsi sulla danza romantica e mortale tra Seo-rae e Hae-joon. Un film quindi dolceamaro rispetto ai precedenti di Park, dove due personalità antitetiche unite dal destino si ricercano e si respingono. Due simbologie ricorrono per tutto il film, ossia il mare e la montagna, i due estremi geografici – come le due nazionalità differenti dei due innamorati – che rappresentano perfettamente la collisione tra due personalità che si attraggono soltanto quando viene messo in moto un omicidio. Il solito elemento “macabro” e “malato” nei rapporti umani non manca quindi nel film di Park, ma l’incontro-scontro tra due anime apparentemente diverse è narrato con una tale semplicità e dolcezza tra primi piani e zoom inaspettati, che dimostra nuovamente come il regista sudcoreano non voglia mai ripetere sé stesso. Park osando nella sua regia anche onirica quando Hae-joon voyeuristicamente osserva e desidera di stare nell’appartamento di Seo-rae, conferisce al lungometraggio una vena poetica estatica che trova la sua perfetta sublimazione in un finale da antologia della Settima Arte, in cui finalmente l’amore impossibile tra Hae-joon (montagna) e Seo-rae (mare) può trovare finalmente un’unione che nel mondo terreno (forse) non si sarebbe mai potuta concretizzare.
Hae-joon rappresenta infatti la montagna, un elemento morfologico stabile, sempre visibile e impassibile dotato di un’integrità indissolubile, come il codice morale del detective che non può mettere all’aria il suo matrimonio per stare con una dark lady dalla dubbia morale. Egli rappresenta quindi l’osservanza rigida alle regole di una società coreana che premia solo i vincenti, ossia tutti coloro che riescono ad arrivare in cima alla montagna e poter osservare così dall’alto tutta la loro immensa fatica.
Seo-rae rappresenta invece il mare, l’opposto della montagna, un elemento morfologico che non può essere compreso e visibile nella sua immensità, infatti nelle profondità degli abissi tutto può nascondere. La donna misteriosa rappresenta infatti l’altra faccia della società coreana nascosta e rigettata in quanto non conforme al buon costume della società, tant’è che l’essere un’immigrata cinese sfruttata da un marito più vecchio e violento coreano la pone ai margini non solo della Corea del Sud, ma anche di un qualsiasi rapporto affettivo. E allora ingegnarsi e ricercare ossessivamente una via d’uscita dal proprio inferno diventa l’unica vitalità che conta in un mondo gerarchico e preimpostato, in cui la fiamma della femme fatale non può che col suo fascino straniero stregare un uomo che invece è dall’altra parte della barricata, e ugualmente alienato e voglioso di un riscatto esistenziale e sentimentale.
Lo splendido finale conclude egregiamente e naturalisticamente la vorticosa danza tra due anime che, nel bene e nel male, sugellano l’intrinseca natura dell‘amore.
Decision to leave è insomma l’ennesima opera d’arte di Park Chan-wook, un regista che mette sempre alla prova la moralità dello spettatore e i limiti della stessa messa in scena, in cui lo splendido montaggio e la monumentale colonna sonora trovano una splendida sinergia tecnica grazie ad una sbalorditiva regia – non a caso premiata Cannes – che regala un thriller poliziesco e naturalistico difficile da dimenticare. Il film sicuramente non è esente da difetti – come la componente poliziesca non sempre ben amalgamata col focus drammaturgico sui due amanti come anche alcuni passaggi narrativi forzati – ma al netto di alcune sbavature l’ultimo film di Park Chan-wook merita di essere visto in sala, anche solo per la grande interpretazione di una bellissima Tang Wei nel suo ruolo della vita.
Voto 9
PS: Seo-rae, io ti avrei seguito fino in capo al mondo…
PPS: Prossima fermata: di nuovo Decision to leave, I’m a cyborg but that’s ok (Cineteca), Lady Vendetta (rewatch alla Cineteca) e infine Joint Security Area (Mubi)
PPPS: Solo amore per Tang Wei: kbizoom.com/tang-wei-revealed-the-meaning-of-her-tears-at-the-blue-dragon-film-festival/
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