Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
Non sono di sicuro le storie, quelle che mancano a Jarmusch, la fedele etichettatura di indipendente orientato verso i margini della società e della solitudine a cui rimane vincolato, gli può fornire spunti e divagazioni sul tema assai variabili. Nell’ultimo girone dell’inferno umano ci si può mettere qualsiasi cosa purchè non si resti ingabbiati in una univoca rappresentazione di società che tenderebbe un po’ troppo ad uniformare i suoi codici linguistici. Ghost Dog il codice del samurai è l’esempio di una divagazione più o meno felice di un noir al cui interno si muovono poco, come nelle caratteristiche del regista, alcuni di quegli intoccabili appartenenti all’ultima casta del genere umano. Ghost Dog è il soprannome di uno spiantato killer per riconoscenza, si presume disadattato per filosofia di vita, assoggettato alle regole di comportamento e di dignità dei samurai per dare un senso ai suoi gesti. Jarmusch gioca sempre con gli stessi elementi, come in un road movie senza motori le sue storie sono corpi che vagano silenziosamente senza trovare pace o tantomeno amore che ne plachi la disperazione, come la fissità dei soggetti, il caparbio ripetersi degli eventi, replicandoli con punti di vista sempre più minuscoli che forzatamente dovranno convergere su quel denominatore comune che appartiene al regista. Il corpo del film non prende tanto le forme abbondanti di Forest Whitaker (nei panni di Ghost Dog) del quale è inevitabile lasciarsi contagiare dalla sua figura, che ruffianamente trasmette simpatia e comprensione, come dalle movenze piene di fascino e di pietà quando si allena con la spada accompagnato da musiche ad hoc (altro punto di forza consueta di Jarmusch) ma dalle massime tratte dal libro dei samurai che appaiono come didascalie e che riescono a restituire in parte il senso dell’esistenza del killer. Il film perde i motivi di un possibile interesse maggiore quando dichiara la sua posizione verso il personaggio che nonostante vada in giro ad eseguire sentenze non verrà mai messo a giudizio davanti ad un reale confronto con le conseguenze dei suoi gesti, abbandonato passivamente al rispetto della deontologia professionale a cui è devoto. Il suo migliore amico è un venditore di gelati che parla solo francese, lingua a lui del tutto incomprensibile, la bambina attratta dalla sua cattiva fama che circola nel quartiere non aspetta altro che di confidarsi con lui, il malavitoso a cui deve la vita (e la mancata analisi del loro rapporto è il vero snodo mancante della storia) e i suoi complici sono macchiette che sfiorano il ridicolo, un insieme di forzature costruite per giustificare il comportamento donchisciottesco del protagonista. Il finale, scontatissimo, sembra un trattato dalla morale di Spike Lee nella sua seconda fase artistica, la più discutibile.
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